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Messaggi del 18/06/2021

RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI

2021, FC n. 25 del 20 giugno

COME HO CAPITO DAVVERO LA FRASE «RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI»

L’altro giorno, mentre guardo Tv2000, alle mie orecchie arriva questa frase del Padre Nostro: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» e finalmente capisco concretamente queste parole che meccanicamente recito da più di 60 anni.

E ora vi racconto perché. Qualche anno fa, alla morte di mia madre, ho ereditato un appartamento. L’ho subito affittato, completamente ammobiliato, a una giovane coppia dello Sri Lanka alla quale avevo chiesto 500 euro al mese. Il capofamiglia è un ragazzo sui 30 anni che lavora nella ristorazione e non riusciva a trovare una casa perché, oltre ad essere straniero, la sua busta paga era di 700 euro (il resto gli veniva pagato in nero). Mi dice che la famiglia è composta da lui e sua moglie e quando gli chiedo come mai non ci sono bambini, con riluttanza (quasi terrore) mi confessa che la moglie è incinta. Leggo nei suoi occhi molta dignità ma anche l’amarezza, la delusione per i tanti rifiuti e sfruttamenti subiti. Incurante dei “buoni consigli” che mi vengono dati, gli affitto l’appartamento abbassando l’importo a 450 euro, considerando che stavo riscuotendo una rendita per la quale non avevo sudato, che i miei genitori sarebbero stati felici di questo, e per ripagare, in qualche modo, le ingiustizie che questo povero ragazzo stava subendo. Mi aveva raccontato qualche bugia, ma ho capito che non erano dettate da malafede, ma solo da paura, tanta paura. Per due anni non ci sono stati problemi; ogni mese, magari non puntualmente, mi versava l’affitto. Poi è scoppiata la pandemia e la carenza di lavoro. Non è più stato in grado di pagarmi l’affitto per alcuni mesi nel 2020 e per altri nel 2021. Immaginando la sua angoscia, gli ho sempre detto di stare tranquillo e di pensare alla sua famiglia, che nel frattempo era aumentata di una nuova creatura. Ora è molto felice perché ha ripreso in pieno il lavoro e mi ha proposto di sanare gli affitti pregressi un poco al mese.

Ma se tutti i giorni recito «Rimetti a noi i nostri debiti» devo anche continuare con coerenza il resto: «Come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Quando gli ho detto che nulla mi doveva, con moltissima dignità ha detto che non poteva accettare e che un po’ alla volta avrebbe sanato il debito. A quel punto, non rimaneva che dirgli che mi avrebbe ripagato quando io avessi deciso di fare una vacanza in Sri Lanka, dove sarei stata ospite nella casa che lui aveva lì. E così, con un sorriso veramente gioioso, entrambi soddisfatti dell’accordo concluso, ci siamo salutati. Subito dopo, parlando con la mia nipote di tredici anni, le ho raccontato di questo mio inquilino. Ho detto che se lui non poteva lavorare era giusto che io gli sospendessi l’affitto. La sua approvazione è stata totale e grande è stata la mia soddisfazione nel pensare che, magari, avevo messo nel suo cuore un semino di onestà-moralità - Anna

 
 
 

Una vita in nero e grigio

2021, Avvenire 17 giugnoMedu. Una vita in nero e grigio fra gli agrumi. Così si lavora nei campi di Gioia Tauro

Nel dossier di medici per i diritti umani (Medu) le testimonianze di angoscia e privazioni dei braccianti, lontano dalla famiglia e sfruttati dai caporali. Senza contratto né tantomeno diritti

«Mi chiamo Mohamed, sono nato in Senegal e non vedo mia moglie da 7 anni. Ho un contratto di lavoro per 2 mesi all’anno, il resto dei mesi lavoro in nero e non posso farci nulla. Ho chiesto insistentemente ai miei datori di lavoro di farmi un regolare contratto per permettermi di dimostrare che posso convertire il mio documento di soggiorno. Ma continuano a dire che, anche se lavoro bene, fare un contratto gli costa troppo. Non posso tornare in Africa, non posso far venire mia moglie in Italia. Sono molto stanco e non perché ho lavorato 7 ore oggi…». È intriso di sudore, fatica, angoscia e privazioni il racconto di Mohamed, bracciante sfruttato negli agrumeti della Piana di Gioia Tauro. La sua e altre drammatiche testimonianze sono contenute nelle 60 pagine del dossier Zone rosse, lavoro nero, dell’associazione Medici per i diritti umani, che dal 2014 opera in quel territorio durante i mesi della raccolta degli agrumi. Un loro “team multidisciplinare”, da ottobre 2020 ad aprile 2021, a bordo di una “clinica mobile” ha raggiunto insediamenti ufficiali e informali abitati dai braccianti stranieri, curando e intervistandone oltre trecento sui 2mila presenti nella Piana.

Dal dossier, visionato in anticipo da Avvenire, emerge uno spaccato desolante: «Nulla o ben poco sembra essere cambiato rispetto agli anni passati» perché «il lavoro nero o grigio continua a rappresentare la norma, lo sfruttamento resta grave e diffuso, le condizioni alloggiative – tra tendopoli ufficiali che cedono rapidamente il posto a baraccopoli sovraffollate e malsane e casali fatiscenti sparsi nelle campagne – sono ancora oggi disastrose». Non solo: «L’accesso alle cure è spesso ostacolato da impedimenti burocratici, mancanza di informazioni, isolamento».

E «l’esercizio di diritti basilari quali l’iscrizione anagrafica, il rinnovo dei documenti di soggiorno, l’accesso alla disoccupazione agricola o all’indennità di malattia resta ancora oggi precluso a molti lavoratori, a causa delle irregolarità contrattuali, salariali e contributive che caratterizzano in modo sistematico i rapporti di lavoro». A otto anni dall’avvio del progetto “Terragiusta”, lamenta Medu, il panorama nella Piana resta sconcertante: «Tendopoli che si trasformano in baraccopoli, cumuli di rifiuti negli insediamenti informali come nei centri abitati, trasporti inesistenti, sanità al collasso, istituzioni impotenti e spesso commissariate, lavoro nero e grigio diffusi, settore agricolo in crisi». Inoltre l’aumento percentuale dei contratti non ha determinato migliori condizioni per i braccianti agricoli stranieri, dal momento che «il lavoro nero è stato sostituito dal lavoro grigio, con gravi irregolarità nei salari, nelle buste paga, negli orari di lavoro e nel versamento dei contributi». Solo un raccoglitore su 10 dichiara di essere iscritto al servizio sanitario nazionale. E la legge 199 del 2016 per il contrasto al caporalato non ha avuto un impatto decisivo sulle reti di sfruttamento.

Lavoro grigio e caporali. Su oltre trecento persone rivoltesi a Medu per visite mediche o consulenza legale, il 94% è risultato «regolarmente soggiornante». Tuttavia l’intermediazione illecita di manodopera per mezzo di caporali resta «il sistema di reclutamento più diffuso». Molto usato è l’espediente subdolo del lavoro grigio: a fronte della registrazione di un contratto, vengono trascritte in busta paga solo poche giornate (mai superiori a 10 al mese, nonostante l’immigrato lavori tra 5 e 7 giorni a settimana, in media 8 ore quotidiane, con un compenso medio di 35 euro al giorno) e le rimanenti sono «corrisposte in contanti». Diffuso è pure il “cottimo”, con un compenso misero: tra 0,60 centesimi e 1,50 euro per una cassetta da 25 chili di agrumi.

L’ondata del Covid. Visitando i lavoratori, i medici hanno riscontrato patologie osteo-articolari, problemi digestivi, malattie respiratorie, dermatiti e un forte stress: alcuni abusano di alcol per «cercare di dimenticare i problemi». Fra ottobre e novembre, sulla situazione ha inciso anche la seconda ondata del Covid-19, che ha colpito il campo container di Rosarno e la nuova Tendopoli ministeriale di San Ferdinando, portando all’istituzione di due “zone rosse”. Racconta Mamadou: «Alla fine di una giornata di lavoro, mi sono recato presso la clinica mobile di Medu perché non riuscivo a stare in piedi. Erano diversi giorni che non stavo bene, ma dovevo continuare a lavorare. Sono risultato positivo, mi hanno messo in quarantena. Ho scoperto di avere diritto all’indennità di malattia, prima non sapevo cosa fosse». In quei mesi, annotano gli esperti di Medu, «le critiche condizioni igienico-sanitarie e il sovraffollamento degli insediamenti hanno rappresentato un terreno fertile per la diffusione del virus».

 
 
 

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