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Messaggi del 07/09/2024

Voglio ringraziarti

Post n°4062 pubblicato il 07 Settembre 2024 da namy0000
 

“Voglio ringraziarti, Signore, per il dono della vita. Ho letto, da qualche parte, che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati.

A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare, Signore, che anche Tu abbia un’ala soltanto. L’altra la tieni nascosta, forse per farmi capire che anche Tu non vuoi volare senza di me. Per questo mi hai dato la vita: perché io fossi tuo compagno di volo. Insegnami allora a librarmi con Te. Perché vivere non è ‘trascinare la vita’, non è ‘strappare la vita’, non è ‘rosicchiare la vita’. Vivere è abbandonarsi, come un gabbiano, all’ebbrezza del vento. Vivere è assaporare l’avventura della libertà. Vivere è stendere l’ala, l’unica ala, con la fiducia di chi sa di avere nel volo un partner grande come Te!

Ti chiedo perdono per ogni peccato contro la vita. Anzitutto, per le vite uccise prima ancora che nascessero. Sono ali spezzate. Sono voli che avevi progettato di fare e Ti sono stati impediti. Viaggi annullati per sempre. Sogni troncati sull’alba.

Ma Ti chiedo perdono, Signore, anche per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi. Per i voli che non ho saputo incoraggiare. Per l’indifferenza con cui ho lasciato razzolare nel cortile, con l’ala penzolante, il fratello infelice, che avevi destinato a navigare nel cielo. E Tu l’hai atteso invano, per crociere che non si faranno mai più.

Aiutami ora, a planare, Signore. A dire, terra terra, che l’aborto è un oltraggio grave alla Tua fantasia. È un crimine contro il Tuo genio. È un riaffondare l’aurora nelle viscere dell’oceano. È l’antigenesi più delittuosa. È la ‘decreazione’ più desolante. Ma aiutami a dire, anche, che mettere in vita non è tutto. Bisogna mettere in luce. E che antipasqua non è solo l’aborto, ma è ogni accoglienza mancata. È ogni rifiuto del pane, della casa, del lavoro, dell’istruzione, dei diritti primari. Antipasqua è la guerra, ogni guerra. Antipasqua è lasciare il prossimo nel vestibolo malinconico della vita, dove ‘si tira a campare’, dove si vegeta solo. Antipasqua è passare indifferenti vicino al fratello che è rimasto con l’ala, l’unica ala, inesorabilmente impigliata nella rete della miseria e della solitudine. E si è ormai persuaso di non essere più degno di volare con Te. Soprattutto per questo fratello sfortunato, dammi, oh Signore, un’ala di riserva!” (don Tonino Bello, vescovo nato ad Alessano-LE, 1935-1993, pastore e profeta del secolo scorso,  da “Alla finestra la speranza. Lettere di un vescovo”ha scritto, fra l’altro, “Le mie notti insonni”).

 
 
 

Dire Grazie

2024, Avvenire, 4 settembre

Il prete cardiologo. Don Carraro: quando il grazie ha una dimensione comunitaria

La gratitudine costruisce e rafforza i legami belli della vita, quei legami che disegnano la trama forse invisibile ma certo indistruttibile della storia. Della gratitudine e del suo lavoro dialoga con Avvenire don Dante Carraro, cardiologo, direttore di Medici con l’Africa Cuamm, Ong-Onlus che svolge una straordinaria opera di promozione e tutela della salute delle popolazioni africane ed è presente in nove Paesi dell’Africa sub-sahariana: Angola, Etiopia, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sud Sudan, Tanzania, Costa d’Avorio, Uganda.

In ordine al senso di gratitudine ravvisa differenze tra le persone africane e quelle europee?

Sì. Quando le persone, come accade in Europa, vivono in un contesto ricco di risorse, di possibilità, di strutture, corrono il forte rischio di dare tutto per scontato, di sentirsi padrone della vita, di pensare che tutto dipenda da loro. E quindi corrono il forte rischio di pensare di non dover ringraziare nessuno. Le popolazioni africane, che invece vivono in contesti di grande povertà, sono molto meno esposte a questo rischio e molto più portate a ringraziare. Porto due esempi: molti in Italia danno per scontato che esista il servizio del 118, che basti una telefonata per ricevere assistenza. E dunque, non pensano di dover essere grati per questo. In Africa un servizio nazionale paragonabile al nostro 118 esiste solo in Sierra Leone, grazie al Cuamm. Nel nostro Paese molti danno per scontato che una mamma possa agevolmente raggiungere un ospedale e partorire in condizioni di sicurezza. In Africa, invece, moltissime donne non riescono neppure a raggiungere l’ospedale per partorire o per far curare il loro bambino. Quando lo raggiungono e ricevono assistenza mostrano una gratitudine davvero commovente.

C’è un episodio che ricorda in particolare?

Ricordo una mamma: era partita dal suo villaggio prima dell’alba, a piedi, per portare in ospedale il suo bambino. Arrivò al mattino: il piccolo era affetto da una grave malaria cerebrale. Lo curammo e guarì: quando lo dimettemmo, la mamma, che non parlava inglese, mi fissò a lungo, con uno sguardo delicato, pieno di gratitudine profonda, che non ho più dimenticato. Ancora oggi, quando sono stanco, quando la fatica mi opprime ripenso agli occhioni di quella mamma e mi dico: “forza, vai avanti!”. Sono convinto che in Europa dovremmo recuperare la verità essenziale della vita e della storia: ciascun essere umano è ciò che è grazie all’aiuto, al sostegno, alle capacità degli altri. E dovremmo, di conseguenza, essere più disposti a ringraziare, con letizia.

In Africa ha osservato un modo peculiare di esprimere la gratitudine?

Sì. In Africa è molto presente la dimensione comunitaria della gratitudine. Ad esempio, capita che le donne con problemi seri legati al parto vengano accompagnate in ospedale da tanti familiari che restano pazientemente seduti fuori ad aspettare. Quando il parto va a buon fine, i familiari esprimono la loro riconoscenza intonando canti gioiosi fuori dal reparto. E poi, appena possono, invitano il medico al villaggio e organizzano una festa con balli, musica, buon cibo: è un’esplosione di gratitudine. È così che dicono grazie alla vita e anche al medico, che considerano parte della comunità. E poi c’è l’esperienza delle celebrazioni eucaristiche: in tanti Paesi dell’Africa sono molto vive, per certo aspetti travolgenti. I fedeli esprimono la lode, il rendimento di grazie a Dio  che provano e che vogliono condividere – con tutto il loro essere, con la musica, il canto, il ballo. Sono celebrazioni piene di letizia, umiltà, senso della comunità.

La gratitudine manifestata in Africa ai medici del Cuamm come influisce sul loro modo di lavorare?

La gratitudine rafforza potentemente la motivazione e fa comprendere più in profondità la ricchezza della professione medica. E aiuta a essere coscienti che esistono differenze tra Italia e Africa: dunque aiuta a esercitare pazienza con le persone che, nel nostro Paese, sono portate a dare tutto per scontato. Allo stesso tempo la gratitudine ricevuta rende desiderosi di raccontare le esperienze vissute in Africa per far comprendere quanta bellezza, forza e grazia ci sono nell’atto di ringraziare.

La povertà può anche storcere l’anima, indurire il cuore soffocando la gratitudine. Come la si riaccende?

Con la bontà, la fedeltà, la perseveranza. Penso a un episodio accaduto anni fa in Sud Sudan. Un giorno incontrammo il nuovo ministro della salute di una regione del Paese e lui fu aspro e aggressivo verso il Cuamm e verso di me: ci attaccò con parole offensive. Ne soffrii perché ci stavamo spendendo tanto per la popolazione di quell’area. Nonostante quelle offese, naturalmente noi continuammo la nostra opera di cura in quella zona. E tenemmo i contatti con quel ministro che, con il tempo, capì il nostro lavoro e la nostra dedizione gratuita. Oggi è uno dei nostri più cari amici. La sua durezza  nata da anni di umiliazioni e di dolore a causa della povertà estrema della sua gente – piano piano è venuta meno grazie alla nostra fedeltà e alla bontà dei nostri interventi.

A chi desidera rivolgere parole di gratitudine?

Anzitutto a Dio, per la sua fedeltà: capisco che non mi ha mollato in mezzo ai tanti tornanti e ai sentieri scoscesi che ho percorso nella vita. Ogni volta mi ha offerto un “gancio” al quale ho potuto aggrapparmi. Gratitudine profonda nutro anche per i miei genitori che mi hanno insegnato la concretezza dell’esistenza. Un pensiero va, in particolare, a mia mamma che, con la sua fede schietta, discuteva e mi provocava aiutandomi a capire che sacerdote avrei voluto essere. Un sentito grazie lo rivolgo poi a don Bernardo, che non ha mai avuto paura dei dubbi e dei travagli della fede, li ha condivisi con me facendomi comprendere che la fede è impastata con la vita e non cancella amarezze e delusioni. Infine, il mio grazie va al dottor Zanetti, un neurologo che mi ha insegnato la sapiente arte di ascoltare, di comprendere i problemi fisici dei pazienti ma anche i moti più intimi della loro anima.

 
 
 

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