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Messaggi del 07/03/2020

Un'America rassicurante

2020, Il Post 6 marzo. La svolta di Norman Rockwell

Per 45 anni aveva illustrato un'America rassicurante e sentimentale, poi a 65 anni divenne "il più improbabile artista di protesta del suo tempo"

er 45 anni l’illustratore Norman Rockwell legò il suo nome a immagini rassicuranti, sentimentali, piene di bambini sorridenti, bottiglie di Coca Cola, cagnolini e scenette spiritose. I suoi lavori incarnavano l’immagine che aveva di sé l’America bianca, fiduciosa e perbenista della classe media di quegli anni, e comparirono uno dietro l’altro sulle pagine e sulle copertine del Saturday Evening Post, rivista dai valori conservatori piena di racconti, articoli, vignette e poesie, comprata da milioni di persone ogni settimana.

Nessuno avrebbe immaginato che Rockwell avrebbe passato gli ultimi anni della carriera a dipingere immagini di denuncia contro il razzismo, alcune anche di una certa crudezza, tra cui «il più famoso quadro del movimento dei diritti civili», come ha scritto la sua biografa Deborah Solomon nel libro American Mirror. La storia, tuttora sconosciuta a molti americani, è stata raccontata da Tom Carson in un articolo su Vox.

Rockwell era nato a New York nel 1894 e sin da ragazzino aveva un solo interesse: diventare un illustratore. A 16 anni aveva lasciato le scuole superiori, si era iscritto a un istituto d’arte e a 22 anni, nel 1916, aveva iniziato a collaborare con il Saturday Evening Post. La storia gli passò davanti senza sconvolgere più di tanto le sue vignette, tranne qualche concessione patriottica durante la Seconda guerra mondiale: la serie Four Freedoms, ispirata a un discorso del presidente Roosevelt, un giovane soldato tornato a casa e il poster con la celeberrima Rosie the riveter, diventata – ma indipendentemente dalle intenzioni di Rockwell – un’icona dei movimenti femministi. Poi, scrive Carson, era tornato ai suoi tipici quadretti, indifferente all’arrivo di Elvis Presley, alla Guerra Fredda, alla ribellione di Rosa Parks e alle proteste per i diritti dei neri.

Inaspettatamente «i tumultuosi anni Sessanta trasformarono Rockwell in una persona dichiaratamente impegnata a sinistra e nel più improbabile esponente dell’arte di protesta del suo tempo». Non sappiamo come mai Rockwell cambiò così repentinamente, ma nel 1959, quando aveva 65 anni, dopo la morte di sua moglie Mary prese a frequentare un club di soli uomini che si riunivano per commentare le notizie del giorno, dalla corsa alle armi nucleari alle battaglie per la fine della segregazione razziale.

Rockwell non aveva mostrato ufficialmente alcun interesse per le battaglie dei neri. Il Saturday Evening Post consentiva di raffigurare gli afroamericani solo in posizioni e in ruoli umili e Rockwell si era sempre attenuto alla regola. Ai quei tempi la maggior parte dei bianchi pensava che il razzismo fosse un problema del Sud che non li riguardava. Il tema entrò nella campagna elettorale per la presidenza, contesa tra il Repubblicano Richard Nixon e il Democratico John Fitzgerald Kennedy, solo a un mese dalle elezioni, quando nell’ottobre del 1960 Martin Luther King Jr. venne arrestato dopo aver guidato una protesta ad Atlanta, in Georgia. Robert Kennedy lo difese pubblicamente e questo spostò il voto degli afroamericani aiutando la vittoria del fratello.

L’unico coinvolgimento di Rockwell nella campagna elettorale erano stati i ritratti che aveva fatto a Kennedy e a Nixon; quest’ultimo ottenne la copertina perché era il candidato favorito del Saturday Evening Post. Rockwell invece votò per Kennedy anche se era stato sempre un Repubblicano moderato perché, raccontò suo figlio Peter, la faccia di Nixon non gli piaceva: «il problema con Nixon è che se lo fai venire bene, non sembra più lui».

O forse Rockwell aveva già maturato la sensibilità che sarebbe venuta fuori qualche mese dopo nel dipinto The Golden Rule, che mostrava persone di tutto il mondo di varie etnie e fedi attorno alla scritta “Fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”. Nella folla ci sono anche due afroamericani: un uomo in camicia e cravatta e una ragazzina con le mani giunte che stringe al petto dei libri. Questo ritratto non poteva non ricordare ai lettori della rivista un’altra bambina diventata famosa nell’autunno precedente.

Ruby Bridges aveva sei anni, era di New Orleans e il 14 novembre era il suo primo giorno di scuola. Ci andò accompagnata dalla madre e da 4 poliziotti federali – i marshals, quelli che tra le altre cose proteggono i testimoni – che continuarono a scortarla ancora per molti giorni. Bridges era una delle prime bambine nere a frequentare una scuola desegregata, provocando reazioni violente e proteste da parte dei bianchi. Molti genitori tolsero i figli dalla scuola e soltanto un’insegnante, Barbara Henry, acconsentì a farle lezione. Nello stesso periodo un altro istituto frequentato interamente da bianchi, il McDonogh 19, ammise tre bambini neri: Leona Tate, Tessie Prevost e Gail Etienne. Tutte le altre classi della città rimanevano rigidamente segregate.

Le immagini di Bridges che entrava a scuola, minuscola ma senza paura tra le urla della folla, furono mostrate dai giornali e dalle tv americane diventando uno spartiacque nella storia del paese. Finirono, ad anni di distanza, anche in un quadro di Rockwell che segnò il nuovo corso della sua carriera e che divenne uno dei più celebri del movimento dei diritti civili: The Problem We All Live With.

Rockwell lo dipinse nel 1964, a quattro anni di distanza dai fatti. La sua vita era cambiata dai tempi della campagna elettorale: si era risposato con Molly Punderson, un’insegnante di 64 anni, il suo interesse per i temi sociali si era approfondito e il rapporto con gli editori del Saturday Evening Post si era deteriorato. Golden Rule gli aveva fatto ricevere la sua prima lettera d’odio in 45 anni di carriera e il giornale sembrava indifferente alla svolta che voleva dare alla sua carriera. Nell’estate del 1961 la direzione decise che la rivista avrebbe pubblicato «arte […] molto più astratta di quanta ne fosse apparsa sulla rivista»; Rockwell rispose con The Connoisseur, una copertina allusiva che mostrava un uomo in completo davanti a un quadro di Jackson Pollock, esponente dell’astrattismo.

Fu il suo ultimo lavoro importante per la rivista. Cinque mesi dopo venne relegato ai ritratti di personaggi politici e celebrità e nel settembre del 1963 Rockwell scrisse all’art director che «il lavoro che voglio fare non rientra più nello schema del Post». La sua ultima copertina fu una ristampa del ritratto che aveva fatto a J.F. Kennedy ai tempi della campagna elettorale, che uscì quando venne assassinato a novembre; nel frattempo Rockwell aveva iniziato a lavorare per Look.

Look era un bisettimanale di fotogiornalismo considerato il principale rivale di Life ma più innovativo, audace e politicamente impegnato. Rockwell chiese di esordire con un lavoro di rottura e di raffigurare «la ragazzina nera e i marshals». L’idea venne approvata, l’illustrazione sarebbe uscita in un numero di gennaio e Rockwell si mise a cercare una bambina che gli facesse da modella.

Rockwell lavorava infatti riproducendo schizzi o fotografie di persone reali: posavano nel suo studio di Stockbridge, in Massachusetts, seguendo le sue indicazioni mentre lui le disegnava al volo o venivano fotografate da un suo collaboratore. All’epoca a Stockbridge vivevano solo due famiglie afroamericane; Rockwell conosceva quella di Bill Gunn, che aveva già posato per The Golden Rule ed era membro del NAACP, la più importante associazione americana per i diritti civili a cui era iscritto anche Rockwell. La bambina scelta per posare era una delle sue due nipoti, Lynda Gunn, di 7 anni. Insieme a lei posarono due autentici marshals provenienti da Boston e un poliziotto di Stockbridge, che poi divenne famoso nel ruolo dell’agente Obie di Alice’s Restaurant (1969), diretto da Arthur Penn.

Rockwell rappresentò i quattro agenti dalle spalle in giù – «se avessi mostrato le loro quattro facce nessuno avrebbe guardato quella della bambina» – e scurì il colore della pelle di Lynda Gunn che contrastava ancora di più con l’abito bianco, simile a quello di una sposa. L’altro colore che attira l’attenzione è il rosso delle chiazze dei pomodori lanciati dalla folla – che non compare ma che rappresenta il punto di vista dell’osservatore – che attira lo sguardo sulla frase razzista dipinta sul muro. È un’opera insolita per Rockwell anche nello stile: essenziale e quasi simbolico, senza troppi ornamenti.

Le reazioni furono divise ed estreme, c’era chi insultava Rockwell e chi lo rivalutava. Lui rispose in una lettera di ringraziamento che «ho appena compiuto 70 anni, sto cercando di fare dei lavori un po’ più da adulti».

Nel 1965 Rockwell illustro un articolò di Look intitolato Southern Justice in cui raffigurava l’uccisione, avvenuta nel giugno del 1964, di tre attivisti per i diritti civili – Mickey Schwerner, Andrew Goodman e James Chaney, due bianchi di New York e un afroamericano – da parte della polizia e di esponenti del Ku Klux Klan. Il dipinto si intitola Murder in Mississippi e, scrive Carson, ricorda quasi Los Desastres de la Guerra del pittore spagnolo Goya.

Rockwell raffigura Goodman morto a terra, Chaney morente in ginocchio, sorretto da Schwerner ancora in piedi poco prima di essere colpito a sua volta. Suo figlio Jarvis fece da modello per Schwerner e lui stesso posò per riprodurre la mano di Chaney che stringe il bicipite di Schwerner: sia la mano che il bicipite sono i suoi, in una specie di identificazione con entrambe le vittime.

Nei cinque anni successivi Rockwell continuò a raffigurare per Look il mondo contemporaneo ma con toni più ottimisti e fiduciosi, come in New Kids in the Neighborhood, che mostra l’incontro di un gruppo di bambini neri e bianchi. L’atmosfera ricorda le sue prime opere, non fosse per il particolare di una donna affacciata alla finestra con una faccia preoccupata e ostile.

Il suo lavoro di maggior impatto dell’epoca, Blood Brothers, non venne mai portato a compimento e rimase un faldone di schizzi e studi che raffiguravano due uomini, uno nero e uno bianco, a terra in una pozza di sangue che poteva essere dell’uno come dell’altro. Rockwell voleva ambientarlo in un ghetto e spingere sull’interpretazione razziale mentre gli editori di Look gli chiesero di spostarlo nella guerra in Vietnam, a cui Rockwell era contrario ma su cui non si era mai pronunciato esplicitamente. Dopo un iniziale consenso, nel 1968 Rockwell cambiò idea e propose di riportare l’immagine nel ghetto e la cosa finì lì.

Intanto nel 1967 si era rifiutato di realizzare per i Marines un poster di propaganda con un soldato in Vietnam che aiutava un abitante del posto: un cambiamento radicale rispetto ai tempi della guerra. A fine anni Sessanta molti continuavano a chiedergli perché non facesse più «quei dolci quadretti» di un tempo, ma Rockwell era irremovibile: «non puoi far tornare i bei vecchi tempi soltanto dipingendoli. Quelle cose adesso sono morte e penso che abbiano fatto il loro tempo». Durante le proteste del ’68 aggiunse che «ora non potrei dipingere Four Freedoms. Semplicemente non ci credo più».

Nonostante il suo nuovo spirito rivoluzionario, Rockwell dovette ritrarre per Look i candidati alla presidenza del 1968 e li raffigurò tutti con maschere della tragedia greca a coprire il viso. Dovette ritrarre anche il nuovo presidente, Richard Nixon, «l’uomo più difficile da disegnare di tutti». Il ritratto è l’unico realizzato da Rockwell conservato alla National Portrait Gallery di Washington DC.

Fu il suo ultimo dipinto importante: Norman Rockwell smise di disegnare nel 1972 colpito da demenza e morì a Stockbridge nel 1978, a 84 anni.

 
 
 

Per la Siria

Post n°3264 pubblicato il 07 Marzo 2020 da namy0000
 

2020, Avvenire 7 marzo.

8 marzo per Idlib. Per la Siria

In piazza San Pietro per dire che in questi nove anni la popolazione civile siriana non solo è stata sterminata. È stata anche progressivamente cancellata dalla narrazione dei vincitori

«Avvertiamo l’urgenza di manifestare la nostra gratitudine a papa Francesco e dimostrare al mondo che il suo appello per questa umanità abbandonata e tradita non è caduto nel vuoto. Questi nostri fratelli e sorelle di Idlib non possono essere dimenticati. Perciò domenica 8 marzo, un gruppo di noi alle 12, nel pieno rispetto di ogni misura di sicurezza, sarà in piazza San Pietro alla recita dell’Angelus».

tra una settimana il conflitto siriano entrerà nel suo decimo anno. Quella che nel marzo del 2011 era iniziata come una rivolta largamente pacifica e di massa si è trasformata, a partire dall’anno seguente, in una guerra spaventosa – combattuta con strategie spietate di assedio e con armi bandite dal diritto internazionale – cui hanno preso parte forze di altri Stati e gruppi armati eterodiretti. Una guerra che, sebbene si parli già di ricostruzione, sta ancora distruggendo.

In questi nove anni la popolazione civile siriana non solo è stata sterminata. È stata anche progressivamente cancellata dalla narrazione dei vincitori. La storia dei vincitori, a proposito degli assedi, narra che c’erano città occupate da gruppi armati islamisti che dovevano essere “liberate”; che i vincitori avevano messo a disposizione percorsi sicuri per la popolazione assediata; che chi non aveva accettato la generosa proposta era d’accordo coi terroristi. Dunque, ad Aleppo, Homs, nella Ghouta orientale (così come del resto a Grozny, Gaza e altrove) non c’erano civili da proteggere. Solo terroristi. Certo, c’erano e ci sono anche loro. Noi però ci ostiniamo a raccontare la storia dei vinti della Siria. Delle decine di migliaia di siriani scomparsi e torturati. Di quelli sequestrati dai gruppi armati, come padre Paolo Dall’Oglio o i “quattro di Douma”. Dei milioni di sfollati interni. Degli altri milioni di rifugiati che vivono esistenze precarie in Giordania, Libano e Turchia, pochissimi dei quali bussano in questi giorni alle porte e alle coste dell’Europa e vediamo come vengono “accolti”…

 
 
 

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