Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 09/03/2020

Roberto, l'Angelo invisibile di Milano

In ogni città ci sono angeli buoni che fanno la differenza, aiutano i poveri, cambiano in meglio la vita a chi è in difficoltà.

A Milano c’era una volta un Angelo invisibile, uno che a un certo punto dell’esistenza si è ricordato di dover restituire qualcosa di quel che aveva ricevuto. Agiva e scompariva, lasciando alla gratitudine il segno di una presenza che sembrava piovuta dal cielo. Leggeva sul Corriere cronache disperate di uomini e donne calpestati dalla vita, e subito si materializzava portando un aiuto concreto, una somma per estinguere un debito, il vitalizio per un giovane immigrato che non poteva manteenersi agli studi, il necessario per pagare l’affitto a una pensionata insolvente, la garanzia di una cura per malati soli. Di questa presenza hanno beneficiato in tanti, senza mai conoscere il suo nome. Angelo invisibile è una definizione impropria: gliel’ho data io in un articolo per raccontare queste cronache del bene e rilanciare il suo messaggio: ‹‹Se soltanto chi è nella mia condizione di benestante rinunciasse a quello che avanza oltre al superfluo, avremmo risolto tanti drammi e casi umani, non solo a Milano, ma in Italia. Il valore dei gesti che facciamo è proporzionale a quello di cui ci priviamo per farli››.

Un giorno mi ha chiamato per una rettifica: ‹‹Non sono un Angelo, ma un cittadino che fa il proprio dovere. Chi ha di più deve aiutare chi ha di meno››. Ma ormai quel titolo gli era rimasto cucito addosso. Tutti chiedevano un aiuto dall’Angelo di Milano. Così ha creato una Fondazione e l’ha chiamata Condividere. Poi si è appoggiato ai centri di ascolto della Caritas, per filtrare le richieste. E qui ha continuato ad aiutare gente, con la supervisione di un altro Angelo, come don Virginio Colmegna.

Due mesi fa, all’improvviso ha rotto ogni indugio e ha rivelato il suo nome. Scrivilo pure, ha detto: ‹‹In un momento in cui una parte non trascurabile del Paese e una certa politica mostrano il lato peggiore, vuol dire che è venuto il momento di uscire allo scoperto e testimoniare››. L’Angelo, pardon, Roberto, lo fa dopo 16 anni di rigoroso anonimato in cui ha sostenuto, tra l’altro, anche l’operazione missionaria Mato Grosso, in Perù.

Uscire allo scoperto non è stato facile. Qualcuno potrebbe accusarlo di incoerenza o malcelato esibizionismo: la bontà, si dice, per essere autentica ha bisogno della discrezione e del silenzio. Lui risponde così: ‹‹In questo momento bisogna esporsi e sollecitare altri come me a farlo››.

Dieci mesi fa ha pubblicato sul Corriere una lettera aperta al governo, dopo gli anatemi sugli immigrati in mare, ‹‹Io sto dalla parte degli esseri umani››, ha scritto. Da un mese va nei quartieri di Milano a dare lezioni sul risparmio, per evitare ai cittadini, spesso anziani, sorprese sgradevoli con banche e finanziarie. ‹‹Vedo una società impaurita e la paura spinge la gente a difendere quel che gli è rimasto››. Dieci giorni fa è intervenuto per pagare il trasporto di un giovane tetraplegico: il Comune ha tagliato metà dei fondi e la famiglia non poteva sostenere i costi per mandarlo con il pullmino speciale a scuola. ‹‹Non sono un eroe, in questi anni penso di aver ricevuto molto di più di quel che ho dato››, ripete. Ma per le nostre buone notizie, rimane un Angelo (Giangiacomo Schiavi, Scarp de’ tenis, febbr. 2020).

 
 
 

Poesia: Lavatevi le mani

Post n°3268 pubblicato il 09 Marzo 2020 da namy0000
 

Poesia pubblicata da Andrea Melis

“Lavatevi le mani

ma andate scalzi

e baciate la terra ferita.

Starnutite pure nel gomito

ma curate le lacrime

di chi piange.

Non viaggiate a vanvera

ora è tempo di stare fermi

nel mondo

per muoversi in noi stessi

dentro gli spazi sottili

del sacro e l’umano.

Indossate pure

le mascherine

ma fatene la cattedrale

del vostro respiro,

del respiro del cosmo.

Ascoltate pure il telegiornale

che

parla di noi

e del più grande miracolo

mai capitato:

siamo vivi

e non ci rallegra morire.

Per ogni nuovo contagio

accarezza un cane

pianta un fiore

raccogli una cicca da terra,

chiama un amico

che ti manca

narra una fiaba

a un bambino.

Ora che tutti contano i morti

tu conta i vivi,

e vivi per contare,

concedi solo l’ultimo istante alla

morte

ma fino ad allora

vivi all’infinito

consacrati all’eterno”

 
 
 

Milano silenziosa

C’è chi manda messaggi allo psicologo nella notte, preso dall’ansia che cresce allo scorrere delle notizie sui siti di informazione. Ma nelle strade si sentono ancora schiamazzi di gruppi di giovani che passano un sabato sera “normale”, anche se nelle zone dei locali e del divertimento, da Milano alle altre città del Nord, le presenze sono molto diradate.

Nelle ore in cui il decreto del governo prova a sigillare un’enorme area del Paese, quella più colpita dal coronavirus, emergono due tipi specifici di reazione al clima di allerta e precauzione generalizzate. Due generi di risposta, che sembrano legati a diversi profili caratteriali. Da una parte coloro in cui la preoccupazione indotta dalle circostanze prevale su ogni altro aspetto contingente della propria esistenza (portando a un isolamento totale). Dall’altra chi tende a rimuovere o a sottovalutare un allarme che pure percepisce, ma non per pura ignoranza delle conseguenze possibili, bensì per una sorta di meccanismo difensivo implicito e inconsapevole rispetto a una paura che sarebbe altrimenti difficile da gestire.

In mezzo, ovviamente, la gran parte delle persone, che con maggiore razionalità e pacatezza provano ad adeguarsi alle regole imposte dall’emergenza e rimodulano i loro stili di vita in base alle regole suggerite dagli esperti e dalle autorità. Sono coloro che escono meno di casa e sperimentano lo smart working senza ansie, sebbene siano consapevoli della serietà della situazione, animati dalla responsabilità verso se stessi e verso gli altri.

Non così per coloro che anche ieri hanno affollato le località di turismo invernale mettendosi in coda senza rispettare le distanze di sicurezza, insensibili ai richiami dei carabinieri che li invitavano a distanziarsi. Non così coloro che hanno fatto ressa all’inaugurazione di un supermercato in Brianza, complici in questo caso anche gli amministratori locali, senza considerare gli aumentati rischi di contagio. Comportamenti irrazionali, che la voglia di non stravolgere la propria vita non possono giustificare. E che probabilmente trovano la loro origine in un tentativo di “rimozione” in senso freudiano, nascondere dietro l’attivismo l’angoscia che naturalmente può crescere in noi.

Quei pochi che si sono precipitati in stazione per prendere l’ultimo treno verso il Sud in partenza a tarda sera da Milano sono invece parte del gruppo che è preda dell’ansia e ricalibra tutto in funzione di una paura che diventa esagerata e irrazionale. A quel punto il terrore del contagio fa temere del vicino conosciuto come dell’estraneo. Il senso di precarietà che di solito è messo sullo sfondo del nostro vivere consueto, emerge con prepotenza e ci fa sentire tutta la fragilità di un’esistenza che può essere compromessa o addirittura può finire in breve tempo per un nemico minuscolo e invisibile quale è il virus. Retaggi della nostra storia evolutiva che bussano alla porta della nostra psiche e non è facile tenere lontani.

La scrittrice Fiona Cameron Lister, moglie del cappellano della chiesa anglicana di Firenze, ha scritto un articolo sul Web in cui cerca di placare le ansie del momento e dà qualche sensato suggerimento: guardare un film per spezzare la costante attenzione al flusso di notizie negative; cambiare discorso quando la gente comincia a parlare di coronavirus sulla base di voci incontrollate; mangiare bene e dormire un po’ di più; fare una lunga passeggiata ogni giorno (senza troppi contatti sociali, ovviamente); e mettere le cose in prospettiva (per esempio, il numero dei contagiati rispetto alla popolazione totale).

Ciò non vuole dire sottovalutare i rischi, né essere irresponsabili o tantomeno insensibili alle necessità del momento. Seguire le raccomandazioni e non farsi prendere dal panico è la via per cercare di superare al meglio il momento complicato che stiamo vivendo. Evitando gli eccessi dall’una e dall’altra parte che danneggiano noi stessi e la comunità di cui siamo parte. (Avvenire, 8 marzo 2020)

 
 
 

Io, rianimatore

Post n°3266 pubblicato il 09 Marzo 2020 da namy0000
 

2020, Avvenire 8 marzo. Coronavirus. "Io, rianimatore in prima linea: ciò che ho visto, ciò che rimarrà"

Noi e i nostri genitori la guerra non l'abbiamo vista. O meglio non l'avevamo vista ancora.

Ho sempre pensato di essere un cavaliere che sfida a duello rusticano la morte. Restituire l'anima a chi l'ha perduta, mi spiegavano da studente fosse il significato di Rianimazione. Macché, fine del film di 30 anni di professione. Fine del delirio di onniscienza e onnipotenza. Il duello non è più rusticano, non è più uno a uno.

Il nemico adesso ti accerchia, sembra come in quei film dove per ognuno che fronteggi dieci ne spuntano da tutte le parti. Puoi solo contenere o abbandonare, e tu, colpito mille volte, non sai neanche perché non muori. Forse per vedere, forse per testimoniare un'umanità che si affanna, che si stringe, che lotta, che sviene, che piange e poi riparte. Forse per vedere la paura di chi curi e quegli occhi che non dimenticherai più, incredibilmente dignitosi come se sapessero che stai facendo il massimo.

Non so quando finirà ma so che finirà.

Quando questo accadrà chi si è ammalato capirà tante cose e chi ha curato sarà un medico o un infermiere migliore. Ma il vero valore sarà ciò che tutto il resto dell'umanità che per sua fortuna ne è rimasta fuori dovrà cogliere: il valore della solidarietà, dell'unione, dell'inutilità di moltissime cose e della grandezza di poche.

Responsabile Anestesia e Rianimazione
Humanitas Gavazzeni
Bergamo

 
 
 

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