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Messaggi del 17/03/2020

Al tempo del coronavirus

Coronavirus. Noi, preti del Policlinico di Milano, testimoni di dolore ed eroismo

La solitudine di chi, contagiato, entra nell’ombra della morte senza poter avere il conforto di un familiare al capezzale. E senza poter chiamare un prete per confessarsi e fare la comunione. Lo strazio dei parenti per l’impossibilità di accompagnare la degenza e l’agonia del proprio caroLa dedizione quotidiana, eroica, dei medici e degli infermieri. «E i bambini che continuano a nascere – tanti! – alla clinica Mangiagalli e ci riempiono di gioia e di speranza». Ecco, nelle parole dei suoi cappellani, il Policlinico di Milano al tempo dell’emergenza coronavirus. Tempo di dolore. Di prova. Di fraternità che si rinnova. Tempo che mette a nudo quello che siamo davvero.

Qui, oggi, è atteso l’arcivescovo Mario Delpini per celebrare – alle 11 nella chiesa di San Giuseppe ai Padiglioni, una delle quattro del Policlinico – la Messa nella terza domenica di Quaresima. «L’arcivescovo di Milano è il parroco di Santa Maria Annunciata, la parrocchia dell’Ospedale Maggiore Policlinico. Qui, dunque, è di casa. E viene, pur nelle limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria, per stare fra la sua gente, come fa ogni buon parroco. Lo accogliamo con gioia e riconoscenza. La sua presenza, per chi crede, è un segno di speranza; per chi ha altre fedi o convinzioni, è un segno di umanità, di quell’umanità che tutti ci unisce al di là di ogni differenza», spiega don Giuseppe Scalvini, rettore vicario di questa parrocchia – con i suoi quattro preti, l’ausiliaria diocesana e le sei suore di Maria Bambina – al servizio della complessa, articolata comunità del Policlinico.

«In questo tempo d’emergenza – incalza, al suo fianco, don Marco Gianola – non possiamo avvicinare gli ammalati, né quelli di Covid-19 né gli altri, per non essere vettori del virus. Così ci dedichiamo ai medici e agli infermieri, sottoposti a carichi di lavoro, ansie e stress che è difficile immaginare. "All’inizio sembrava un’onda, ora è arrivato lo tsunami", mi diceva un medico in questi giorni. Come preti cerchiamo di essere un segno di speranza e di prossimità nella fatica e nell’angoscia». «Quello che diamo – riprende don Scalvini – sono cose semplici: un sorriso, un saluto, un po’ di ascolto. Nel personale vediamo un eroismo che non nasce ora: qui è così ogni giorno, qui lo straordinario è ordinario, ma è questa emergenza che ora lo porta alla luce. Io vedo persone che lavorano mettendo in gioco tutta la propria umanità».

Per tante persone, è come essere messi nuovamente alla luce. «Un’infermiera che mi diceva di non essere molto religiosa mi ha raccontato, in lacrime, di essere entrata in chiesa, dopo turni di lavoro massacranti, giorni e notti senza riposo, e di aver affidato tutto alla Madonna. È stato come riscoprire qualcosa – Qualcuno? – che si portava dentro fin da bambinaIl dolore, a volte, può allontanarci da Dio, altre volte ci avvicina», riflette don Gianola. «A preoccupare chi lavora qui – riprende – è anche il timore di portare il virus a casa, di contagiare figli, mariti, mogli, genitori magari anziani».

Avvicinare i degenti, dunque, è impossibile. La pastorale ordinaria, qui come in ogni altra parrocchia, è messa fuori gioco. «Così, la sera, passiamo sotto i padiglioni per una preghiera e una benedizione – racconta don Scalvini –. Un paio di settimane fa, quando l’emergenza era ai primi passi e – con adeguata protezione – potevamo ancora accostarci ai malati, mi ha fatto grande tenerezza un signore di 93 anni, ricoverato per coronavirus e poi deceduto, che mi ha chiamato dicendo: "Sono sereno, mi fido di Dio, ma vorrei mettere le cose a posto". E ha chiesto di confessarsi. Ma per chi è venuto dopo, non è stato più possibile».

«Ora ci troviamo a fare molte benedizioni in camera mortuaria – testimonia don Gianola – e a condividere lo strazio dei familiari che non hanno potuto in alcun modo accompagnare l’agonia e la morte del loro caro, né possono portarlo al cimitero con il funerale come si è sempre fatto». «Siamo di fronte a esperienze di dolore che è difficile immaginare – scandisce don Scalvini – . Per chi è uscito dalla malattia come per quanti hanno perso un familiare o un amico, credo ci vorranno grandi tempi di rielaborazione, e servirà l’aiuto e l’ascolto di sacerdoti, psicologi e altre figure competenti».

A dare sostegno e sollievo al cammino di degenti, familiari e lavoratori, intanto, le tre chiese rimaste aperte per la preghiera personale (la quarta, la chiesa dell’Annunciata, è chiusa come l’Università Statale della cui sede fa parte) e la Messa celebrata ogni giorno senza fedeli, ma che un’app permette di seguire sullo smartphone. Questa Quaresima al tempo del coronavirus «si offre come occasione per riscoprire l’essenziale e risvegliare il desiderio di Dio e dei sacramenti – osserva don Gianola –. Forse non daremo più per scontate la Messa e l’Eucaristia, come ben sanno tanti nostri fratelli del Terzo Mondo». «In questo dramma – conclude don Scalvini – vedo tanta dedizione, generosità, solidarietà. Vedo cose straordinarie che ci restituiscono la bellezza e la grazia della nostra umanità. E se non si è uomini e donne in pienezza, è difficile essere cristiani e diventare santi». (Avvenire, 14 marzo 2020)

 
 
 

Senza mascherine

Post n°3277 pubblicato il 17 Marzo 2020 da namy0000
 

2020, Avvenire 16 marzo. Coronavirus. «Io, vicesindaco, senza mascherine e assediato dalle ambulanze... »

Mauro Davoli, fotografo di fama, racconta la paura e l'isolamento in una cittadina in provincia di Parma: “Non facciamo che le nostre lacrime di dolore si trasformino in lacrime di rabbia”

“Mi si stringe il cuore a sentire il suono delle sirene e a veder correre le ambulanze con cui gli angeli soccorritori accompagnano i nostri amici e i genitori, i figli, i nostri nonni a ospedali che sembrano ormai lazzaretti nonostante la straordinaria professionalità, il coraggio e la dedizione di medici e infermieri”.

La sindaca è a casa in quarantena e come lei tanti altri dell’amministrazione comunale, e Davoli è per ora tra i pochi fortunati che possono continuare a lavorare. “Sono 18 le persone di cui si sa con certezza che sono state colpite dal virus, ma altissimo è il numero di coloro che devono restare chiusi a casa perché manifestano sintomi. Non abbiamo un ospedale, c’è solo un presidio sanitario e anche alcuni dei medici sono in quarantena. Le persone che si ammalano vengono portate negli ospedali di una delle città vicine, Parma, Borgo Taro o Fidenza. Ed è un continuo via vai di ambulanze con i volontari. Poche ora fa un’impiegata del Comune ha accusato disturbi respiratori ed è stata portata via d’urgenza".

Si respira un clima surreale e pesante nell’emergenza è la sensazione di impotenza, esacerbata dalla mancanza dei sussidi più elementari, come le mascherine “Ne abbiamo solo del modello più semplice che evita ai contagiati di diffondere il virus, ma sono necessarie quelle che permettono di impedire di essere contagiati, modelli come il PFP2, e non ce ne sono. Io, come tanti altri, devo lavare ogni giorno la mia mascherina di cotone per paura di non trovarne un’altra o di sottrarla ai medici che in Pronto soccorso rischiano la vita per salvarla ad altri.

”Solo questo possono evitare a medici, volontari, personale della Protezione civile, di non contagiarsi. “Bisogna fare cose semplici ma essenziali. Perché non basta scrivere ‘Andrà tutto bene’. Dobbiamo creare le condizioni perché questo avvenga veramente. E quando un numero crescente di persone dev’essere accompagnato in ospedale, o quando è necessario consegnare in a casa di chi è malato o in quarantena il cibo o le medicine bisognerebbe permettere a chi svolge queste mansioni di non contagiarsi. Una mascherina può salvare vite. Ma non ne abbiamo”.

Sui giornali locali aumenta il numero di necrologi, ieri sulla Gazzetta di Parma ce n’erano cinque pagine piene. Eppure c’è ancora qualcuno che non riesce a modificare le proprie abitudini. “Per quanto la Polizia municipale giri con l’altoparlante avvisando di stare in casa ed evitare contatti, si vedono ancora capannelli di giovani che scherzano per strada”.

Ma l’urgenza porta anche a maggiore solidarietà e comprensione: “Non riceviamo più tante proteste, e sono tanti a collaborare. C’è solidarietà, come non s’era mai vista”. Se arrivassero anche le mascherine, pur nell’emergenza, tutto sarebbe più semplice.

 
 
 

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