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Messaggi del 17/09/2020

Nelle scarpe degli altri

Post n°3403 pubblicato il 17 Settembre 2020 da namy0000
 

Mettiamoci nelle scarpe degli altri. Intervista a papa Francesco, Scarp de’ tenis maggio-giugno 2020

Santità, in passato tutto il mondo ha scritto delle scarpe del Papa, scarpe da lavoratore e camminatore e recentemente i media sono rimasti sorpresi, e hanno raccontato, del Papa che è andato in un negozio per comprarne un paio nuove. Perché tanta attenzione? Forse perché oggi si fatica a mettersi nelle scarpe degli altri?

È molto faticoso mettersi nelle scarpe degli altri, perché spesso siamo schiavi del nostro egoismo. A un primo livello possiamo dire che la gente preferisce pensare ai propri problemi senza voler vedere la sofferenza o le difficoltà dell’altro. C’è un altro livello però. Mettersi nelle scarpe degli altri  significa avere grande capacità di comprensione, di capire il momento e le situazioni difficili. Faccio un esempio: nel momento del lutto si porgono le condoglianze, si partecipa alla veglia funebre o alla messa, ma sono davvero pochi coloro che si mettono nelle scarpe di quel vedovo o di quella vedova  o di quell’orfano. Certo non è facile. Si prova dolore, ma poi tutto finisce lì. Se pensiamo poi alle esistenze che spesso sono fatte di solitudine, allora mettersi nelle scarpe degli altri significa servizio, umiltà, magnanimità. È anche l’espressione di un bisogno. Io ho bisogno che qualcuno si metta nelle mie scarpe. Perché tutti noi abbiamo bisogno di comprensione, di compagnia e di qualche consiglio. Quante volte ho incontrato persone che, dopo aver cercato conforto in un cristiano, sia esso un laico, un prete, una suora, un vescovo, mi dice: ‹‹Sì, mi ha ascoltato, ma non mi ha capito››. Capire significa mettersi nelle scarpe degli altri. E non è facile. Spesso per supplire a questa mancanza di grandezza, di ricchezza e di umanità ci si perde nelle parole. Si parla. Si parla. Si consiglia. Ma quando ci sono solo le parole o troppe parole non c’è questa “grandezza” di mettersi nelle scarpe degli altri.

 

Santità, quando incontra un senza tetto qual è la prima cosa che gli dice?

‹‹Buongiorno››. ‹‹Come stai?››. Alcune volte si scambiano poche parole, altre volte invece si entra in relazione e si ascoltano storie interessanti: ‹‹Ho studiato in un collegio, c’era un bravo prete…››. Qualcuno potrebbe dire, ma cosa mi interessa? Le persone che vivono sulla strada capiscono subito quando c’è il vero interesse da parte dell’altra persona o quando c’è, non voglio dire quel sentimento di compassione, ma certamente di pena. Si può vedere un senza tetto e guardarlo come una persona, oppure come fosse un cane. E loro di questo differente modo di guardare se ne accorgono. In Vaticano è famosa la storia di una persona senza dimora, di origine polacca, che generalmente sostava in piazza Risorgimento a Roma, non parlava con nessuno, neppure con i volontari della Caritas che la sera gli portavano un pasto caldo.  Solo dopo lungo tempo sono riusciti a farsi raccontare la sua storia: ‹‹Sono un prete, conosco bene il vostro Papa, abbiamo studiato insieme in seminario››. La voce è arrivata a papa Giovanni Paolo II che sentito il nome, ha confermato di essere stato con lui in seminario e ha voluto incontrarlo. Si sono abbracciati dopo quarant’anni, e alla fine di un’udienza il Papa ha chiesto di essere confessato dal sacerdote che era stato suo compagno. E dopo la confessione, il suo amico disse al Papa: ‹‹Ora però tocca a te››. E il compagno di seminario fu confessato dal Papa. Grazie al gesto di un volontario, di un pasto caldo, a qualche parola di conforto, a uno sguardo di bontà questa persona ha potuto risollevarsi e intraprendere una vita normale che lo ha portato a diventare cappellano di un ospedale. Il Papa l’aveva aiutato, certo, questo è un “miracolo” ma è anche un esempio per dire che le persone senza dimora hanno una grande dignità. Nell’arcivescovado a Buenos Aires sotto a un androne fra le grate e il marciapiede abitavano una famiglia e una coppia. Li incontravo tutte le mattine quando uscivo. Li salutavo e scambiavo sempre due parole con loro. Non ho mai pensato di cacciarli via. Qualcuno mi diceva: ‹‹Sporcano la Curia››, ma la sporcizia è dentro. Penso che bisogna parlare alle persone con grande umanità, non come se dovessero ripagarci di un debito e non trattarli come fossero poveri cani.

 

Molti si domandano se è giusto fare l’elemosina alle persone che chiedono aiuto per strada; lei cosa risponde?

Ci sono tanti argomenti per giustificare se stessi quando non si fa l’elemosina. ‹‹Ma come, io dono dei soldi e poi lui li spende per bere un bicchiere di vino?››. Un bicchiere di vino è l’unica felicità che ha nella vita, va bene così. Domandati piuttosto che cosa fai tu di nascosto? Tu quale “felicità” cerchi di nascosto? O, al contrario di lui, sei più fortunato, con una casa, una moglie, dei figli, cosa ti fa dire ‹‹Occupatevi voi di lui››. Un aiuto è sempre giusto. Certo non è una buona cosa lanciare al povero solo degli spiccioli. È importante il gesto, aiutare chi chiede guardandolo negli occhi e toccando le mani. Buttare i soldi e non guardare negli occhi, non è un gesto da cristiano. Come si può educare all’elemosina? Racconto un aneddoto di una signora che ho conosciuto a Buenos Aires, mamma di cinque figli (a quel tempo ne aveva tre). Il papà era al lavoro e stavano pranzando, sentono bussare alla porta, il più grande va ad aprire: ‹‹Mamma c’è un uomo che chiede da mangiare. Cosa facciamo?››. Tutti e tre, la più piccola aveva quattro anni, stavano mangiando una bistecca alla milanese, la mamma dice loro: ‹‹Bene, tagliamo a metà la nostra bistecca››. ‹‹Ma no mamma, ce n’è un’altra›› dice la bambina. ‹‹È per papà, per questa sera. Se dobbiamo donare, dobbiamo dare la nostra››. Con poche semplici parole ha imparato che si deve dare del proprio, quello di cui non vorresti mai separarti. Due settimane dopo, la stessa signora andò in città per sbrigare alcune commissioni e fu costretta a lasciare i bambini a casa, avevano i compiti da fare e lasciò loro la merenda già pronta. Quando tornò, trovò i tre figli in compagnia di un senzatetto a tavola che stavano mangiando la merenda. Avevano imparato troppo bene e troppo in fretta, di certo era un po’ mancata loro la prudenza. Insegnare alla carità non è scaricare colpe proprie, ma è un toccare, è un guardare a una miseria che ho dentro e che il Signore comprende e salva. Perché tutti noi abbiamo miserie “dentro”.

 

A più riprese il Papa si è schierato a difesa dei migranti invitando all’accoglienza e alla carità. Milano in questo senso è una capitale dell’accoglienza. Sono però in molti a chiedersi se davvero bisogna accogliere tutti indistintamente oppure se non sia necessario porre dei limiti.

Quelli che arrivano in Europa scappano dalla guerra o dalla fame. E noi siamo in qualche modo colpevoli perché sfruttiamo le loro terre ma non facciamo alcun tipo di investimento affinché loro possano trarre beneficio. Hanno il diritto di emigrare e hanno diritto ad essere accolti e aiutati. Questo però si deve fare con quella virtù cristiana che è la virtù che dovrebbe essere propria dei governanti, ovvero la prudenza.

Cosa significa? Significa accogliere tutti coloro che si “possono” accogliere. E questo per quanto riguarda i numeri. Ma è altrettanto importante una riflessione su “come” accogliere. Perché accogliere significa integrare. Questa è la cosa più difficile perché se i migranti non si integrano, vengono ghettizzati. Mi torna sempre in mente l’episodio di Zaventem (l’attentato all’aeroporto di Bruxelles del 22 marzo 2016, ndr); questi ragazzi erano belgi, figli di migranti ma abitavano in un quartiere che era un ghetto. E cosa significa integrare? Anche in questo caso faccio un esempio: da Lesbo sono venuti con me in Italia tredici persone. Al secondo giorno di permanenza, grazie alla comunità di Sant’Egidio, i bambini già frequentavano le scuole. Poi in poco tempo hanno trovato dove alloggiare, gli adulti si sono dati da fare per frequentare corsi per imparare la lingua italiana e per cercare un lavoro. Certo, per i bambini è più facile: vanno a scuola e in pochi mesi sanno parlare l’italiano meglio di me. Gli uomini hanno cercato un lavoro e l’hanno trovato. Integrare allora vuol dire entrare nella vita del Paese, rispettare la cultura del Paese ma anche far rispettare la propria cultura e le proprie ricchezze culturali. L’integrazione è un lavoro molto difficile. Ai tempi delle dittature militari a Buenos Aires guardavamo alla Svezia come un esempio positivo. Gli svedesi oggi sono 9 milioni, ma di questi, 890 mila sono nuovi svedesi, cioè migranti o figli di migranti integrati. Il Ministro della cultura Alice Bah Kuhnke è figlia di una donna svedese e di un uomo proveniente dal Gambia. Questo è un bell’esempio di integrazione. Certo ora anche in Svezia si trovano in difficoltà: hanno molte richieste e stanno cercando di capire cosa fare perché non c’è posto per tutti. Ricevere, accogliere, consolare e subito integrare. Quello che manca è proprio l’integrazione. Ogni Paese allora deve vedere quale numero è capace di accogliere. Non si può accogliere se non c’è possibilità di integrazione.

 
 
 

La strana moria degli uccelli

Post n°3402 pubblicato il 17 Settembre 2020 da namy0000
 

2020, Il Post 16 settembre.

La strana moria degli uccelli in New MexicoForse c'entrano gli incendi di queste settimane in California e Oregon

Da qualche settimana in New Mexico, nel sud-ovest degli Stati Uniti, si osserva un grande aumento di uccelli migratori morti, un fenomeno senza precedenti per queste zone. Stanno circolando parecchio video e testimonianze di persone e ricercatori che trovano uccelli morti ovunque, dai sentieri per le escursioni ai campi da golf, e il tema è finito anche sulla stampa. Secondo biologi ed esperti sarebbero molti i fattori all’origine del fenomeno, ma ci vorranno settimane prima di conoscere con certezza le cause. Una delle ipotesi più condivise dagli scienziati è che c’entrino gli incendi che stanno devastando California e Oregon da diverse settimane.

La moria riguarda un numero imprecisato di uccelli migratori, ma Martha Desmond, professoressa dell’Università del New Mexico specializzata in ornitologia, pensa che si possa parlare di centinaia di migliaia di esemplari morti. Desmond ha raccontato al New York Times di non aver mai visto nulla di simile, e Andrew Farnsworth, esperto ricercatore del Cornell Lab of Ornithology, nello stato di New York, ha detto che si tratta «chiaramente di un evento molto, molto importante».

La maggior parte degli uccelli trovati morti appartiene a specie che si nutrono di insetti. Si tratta di uccelli migratori che vivono e si spostano nella parte sud-occidentale degli Stati Uniti, comprese alcune specie di merli, rondini verdeviola, passeri e uccelli canori. Oltre ad aver riscontrato un insolito numero di esemplari morti, gli esperti hanno anche osservato un comportamento insolito quando gli uccelli sono ancora vivi: per esempio, le rondini, che solitamente sono aggressive, si lasciano accarezzare, mentre altri uccelli sono così apatici da non volare, da radunarsi sulle strade anziché sui rami degli alberi, o da non riuscire a evitare l’arrivo delle automobili e finire quindi per essere investiti.

I biologi della base militare White Sands Missile Range stanno lavorando assieme agli esperti del Bureau of Land Management locale (una sorta di agenzia ambientale) e agli scienziati dell’Università del New Mexico per ricostruire le cause che hanno portato alla morte di così tanti uccelli nelle ultime settimane. Dal momento che l’insolito fenomeno è stato riscontrato anche in alcune parti del Colorado meridionale e del Texas occidentale, che confinano col New Mexico, la cosa è diventata di interesse nazionale e diversi esemplari di uccelli morti sono stati inviati nei laboratori universitari di altri stati perché vengano esaminati.

I biologi concordano sul fatto che all’origine del fenomeno ci sarebbe un insieme di fattori ambientali e climatici. In particolare, l’effetto dei venti provenienti dalla zona ovest degli Stati Uniti, che da settimane è colpita da incendi di dimensioni impressionanti, sarebbe una delle ragioni principali della moria. Come ha spiegato Farnsworth, queste circostanze sono particolari per il New Mexico: anche se in passato sono state registrate diverse estati particolarmente calde, sono molto poche quelle in cui ci sono stati sia incendi così grossi sia una prolungata siccità. Oltre al fatto che i fumi tossici degli incendi possono aver compromesso la salute degli uccelli, una delle teorie degli esperti è che le nuvole di fumo li abbiano costretti a modificare e deviare i propri percorsi migratori, lasciandoli disorientati.

Un’altra possibile causa scatenante è la recente ondata di freddo che ha interessato gli stati delle Montagne Rocciose, a nord del New Mexico, che ha decimato la popolazione di insetti di cui si nutre buona parte degli uccelli migratori. Come ha notato una ricercatrice di ornitologia dell’Università del New Mexico, Jenna McCullough, molti degli uccelli trovati morti hanno «poco grasso o non ne hanno del tutto e molti sono sottopeso». A questo proposito, Desmond sostiene che per via delle mutate condizioni climatiche gli uccelli possano aver intrapreso il processo di migrazione prima del tempo, senza essere pronti.

Le analisi per chiarire le cause della morte degli uccelli sono in corso presso diversi laboratori, come quello del National Wildlife Health Center, in Wisconsin, o del Fish and Wildlife Service di Ashland, in Oregon. Ma al di là delle cause, secondo gli scienziati è chiaro che ci saranno grosse conseguenze su flora e fauna. Desmond ha chiarito che tra le altre cose i cambiamenti climatici stanno condizionando la quantità di insetti presenti in natura e ha spiegato che questo «evento traumatico» sta avendo un impatto «devastante» sul declino della popolazione di numerose specie di uccelli, che sono a rischio già da tempo.

 
 
 

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