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Messaggi del 21/09/2020

Il primo degli italiani

Post n°3411 pubblicato il 21 Settembre 2020 da namy0000
 

2020, Stefano Baldolini, HuffPost 21 settembre.

Aldo Cazzullo: "Dante, il primo degli italiani"Intervista all'autore di “A riveder le stelle” nei 700 anni dalla morte del Sommo Poeta che "ha inventato gli italiani". ″Un racconto del suo viaggio all’Inferno, ma anche il racconto del viaggio in Italia che fa, perché l’Inferno è anche un viaggio in Italia”

 

″È il racconto del viaggio all’Inferno di Dante, ma anche il racconto del viaggio in Italia che Dante fa, perché l’Inferno è anche un viaggio in Italia”. Esce per Mondadori “A riveder le stelle” di Aldo Cazzullo, vicedirettore e firma del Corriere. L’occasione sono i 700 anni dalla morte dell’“unico poeta che chiamiamo col diminutivo”, di cui abbiamo “familiarità e soggezione”, colui che ha pensato gli italiani come dovrebbero essere e, forse a parte alcune eccezioni, ma ne parleremo con l’autore, non sono mai stati. Ma “il primo degli italiani”, nonostante le invettive, gli insulti, gli scherni, “ci ha inventati”, e ci voleva bene. Eccome. 

 

E’ stata una faticaccia? Confrontarsi con Dante non è una cosa da poco.

È stato fondamentale il lockdown. Non soltanto per trovare due mesi vuoti per scrivere ma anche per fermarsi un attimo a riflettere. C’è un canto, il decimo, in cui sono puniti i falsari, e Dante scrive “Immaginate di vedere tutti i malati degli ospedali delle zone paludose come la val di Chiana, la Maremma, la Sardegna, dove si moriva di malaria, immaginate il fetore, ‘le marcite membre’. Questo è nulla in confronto a quello che ho visto nella malabolgia’”. Con i malati di lebbra che si grattano le piaghe, qualcuno sdraiato supino, qualcuno bocconi. Ecco, quest’immagine spaventosa dell’epidemia non era ai tempi di Dante una dolorosa sorpresa. Era una tragica abitudine. Tant’è che la generazione successiva alla sua è stata spazzata dalla pandemia. Però quella ancora successiva è quella che fa il Rinascimento. Di qui la straordinaria capacità dell’Italia di riprendersi.

 

Lei scrive che non le interessava fare un commento alla Divina Commedia “ma un racconto del viaggio di Dante, e di come le sue parole abbiano contribuito a creare l’identità italiana”. 

È il racconto del viaggio all’Inferno di Dante, ma è anche il racconto del viaggio in Italia che Dante fa, perché l’Inferno è anche un viaggio in Italia.

 

Perché solo l’Inferno?

Perché l’Inferno è quello che abbiamo tutti in mente, anche se non escludo di proseguire con il Purgatorio e il Paradiso. Dante con cui abbiamo grande confidenza - l’unico poeta che chiamiamo per diminutivo come chiamassimo Leopardi, Giacomino - lo conosciamo molto meno di quanto pensiamo, e inoltre un po’ intimidisce. Come se parlasse di massimi sistemi, del paradiso, dell’inferno, dell’impero, di cose alte che non ci riguardano, ma non è così, fin dall’inizio, Nel mezzo del cammin di nostra vita, la parola chiave è nostra. Dante sta parlando di noi. Di noi uomini, di noi italiani. 

 

Già, noi italiani, che parliamo la sua lingua. E che, lei sostiene siamo stati inventati proprio dal poeta della Divina Commedia.

Noi in qualche modo parliamo la lingua del libro, che lui prende dai mercati di Firenze e per un bel po’ si parla solo a Firenze. Un po’ come il popolo ebraico che parla il libro per eccellenza, la Bibbia. Riprendendo in mano Dante, a settecento anni dalla sua morte, ho scoperto che è un poeta di straordinaria modernità. La sua lingua è molto viva, sono rimasto colpito nel vedere quante espressioni che usiamo tutti i giorni sono state inventate o codificate da Dante. “Stare solo soletto”“Degno di nota”Non ragioniam di lor ma guarda e passaCosa fatta capo ha. La stessa idea del Bel paese è un’immagine che si inventa Dante. Ma c’è di più, Dante si inventa proprio l’Italia. L’Italia, che ha questo di straordinario rispetto alle altre nazioni, che non è nata da una guerra come la Francia, non è nata da un matrimonio dinastico come la Spagna, non è nata da un trattato diplomatico. L’Italia è molto più giovane come Stato, ma esisteva già grazie a Dante che si inventa l’idea della Roma dei Papi e la Roma dei Cesari. La classicità e la cristianità. Dio e l’uomo, insieme. Ecco allora che l’Italia ha una missione: custodire questa eredità classica, farla vivere. L’Italia è un sistema di bellezza, di arte, di cultura, di poesia. E non è un’idea isolata ma feconda. Era già in Giotto, suo contemporaneo, suo concittadino, suo amico, suo ritrattista. Se tu guardi il campanile di Giotto, vedi che è un’opera di architettura, ma anche di scultura e di pittura. Petrarca magari non molto, ma Boccaccio amava Dante. Tutti i poeti, gli scrittori che hanno a cuore l’Italia, si rifanno a Dante. Leopardi scrive sopra il monumento di Dante che si prepara a Firenze, Manzoni scrive ‘Marzo 1821’, c’è Ippolito Nievo, prima ancora Foscolo. 

 

Ma quale era l’identità immaginata da Dante, che non poteva certo pensare a un’Italia politica? 

Dante non pensa all’Italia come Stato, perché per lui il potere temporale è l’Impero. Però è un Impero che regola, non un Impero che comanda, che regge e armonizza, che non vìola le libertà comunali, che per Dante sono sacre. Con l’Italia è molto severo, arrabbiato, indignato, tratta malissimo tutti. I pistoiesi sono tutti biscazzieri, cioè corrotti; mette in scena Vanni Fucci, questo ladro sacrilego che ha rubato il tesoro del duomo, e gli fa dire Son Vanni Fucci, bestia, e Pistoia mi fu degna tana”; i bolognesi sono tutti ruffiani, fanno soldi con le donne, i genovesi e i pisani che si sono combattuti alla Meloria li attacca nello stesso canto, e su Pisa è durissimo: Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove ’l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch’elli annieghi in te ogne persona!. Ce l’ha con Roma, là dove Cristo tutto dì si merca e con Firenze, naturalmente.

 

Non gli perdona l’esilio, ai fiorentini, e viene rimbeccato da Machiavelli.

Machiavelli non amava Dante, perché dal suo punto di vista aveva denigrato la patria fiorentina. Però tornando all’arrabbiatura di Dante, va detto che è frutto dell’amore che lui ha in serbo, la vorrebbe diversa. Nel Purgatorio scrive Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!”. Si rivolge al cielo: E se mi è concesso, o sommo Dio che fosti crocifisso per noi in terra, sono i tuoi occhi giusti rivolti altrove?”. Se non è amor di patria questo...

 

Quali sono i mali dell’Italia per Dante?

La corruzione. La divisione, l’odio tra le fazioni, questa condanna a dividersi sempre e comunque, guelfi contro ghibellini, eppoi quando vincono i guelfi, Bianchi contro Neri. Una famiglia contro l’altra. Un ramo della stessa famiglia contro l’altro. Poi, l’incapacità di riconoscere una leadership, di non avere un rapporto sereno con il potere. 

 

Una cosa vera ancora oggi.

Certamente, noi non abbiamo un rapporto sereno con il potere. Il leader non viene sostenuto o criticato, ma blandito o abbattuto. In circostanze ovviamente non paragonabili, ma pensiamo al Duce appeso a testa in giù, Moro nel bagagliaio della Renault rossa, Andreotti sotto processo per mafia, Craxi sepolto sotto le mura della medina di Hammamet. Non abbiamo un rapporto maturo con il potere. Piuttosto, coltiviamo l’idea dell’interesse privato che prevale sempre sull’interesse pubblico. La difficoltà a concepire che una persona possa fare qualcosa nell’interesse di qualcuno, che non sia se stesso. È una cosa eterna, non siamo cambiati. Dante scrive che i migliori non fanno politica, e che le cose che vengono decise a ottobre arrivano a stento a metà novembre. Sembra il ritratto dell’Italia di oggi. 

 

Giovanni Prezzolini lo definisce l’“antitaliano”, di fatto la persona più lontana da tutto quello di cui abbiamo parlato: Dante è etico, rigoroso, unisce pensiero e azione. 

È tutto vero, però è italiano. Anzi, il primo degli italiani. È quello che si inventa l’Italia, che ci dice ciò che dovremmo essere. Ecco, il canto più autobiografico della Divina Commedia è quello con Ulisse. Ulisse è Dante, come Flaubert ripeteva “Madame Bovary c’est moi”. Ulisse è l’uomo che non si accontenta, che si mette in viaggio, che va oltre le Colonne d’Ercole, naufraga ma è anche il primo uomo moderno, l’antenato di Cristoforo Colombo. Intendiamoci, Dante è un uomo del Medioevo ma allo stesso tempo è “il primo umanista” come dice Pessoa. 

 

Tornando al libro, e al suo viaggio in Italia, mi sembra che qui lei usi un espediente narrativo. Ciò che Dante non descrive dell’Italia, anche futura, quindi da lui inimmaginabile, diventa Italia reale attraverso evocazioni, associazioni di immagini simili. 

Ci sono alcune cose che sono evocate, altre descritte quasi da cronista. Dante è stato anche un grande reporter. Quando scrive “Ravenna sta come stata è molt’anni”, sembra di leggere il celebre attacco di Giorgio Bocca da Vigevano: “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste”. Certo è molto di più di un nostro collega, ma è anche un grande reporter che descrive l’Arsenale di Venezia come farebbe un grande cronista. Sì, oltre alle descrizioni minuziose ci sono evocazioni, come Scilla e Cariddi che a me hanno fatto venire in mente il terremoto di Messina del 1908, o l’immagine di una montagna in un lago, che per me non ricorda altro che il Vajont. 

 

Un po’ profeta di sventura?

Certo che no. Come dire, c’è una grandezza, ma anche una dolcezza. Pensiamo alla descrizione del lago di Garda, delle Dolomiti, il Mincio, Mantova, tutta quest’acqua, e tutta la storia che è passata lì, nel Risorgimento o nella Grande Guerra. Così com’è il primo che parla del golfo del Quarnaro, quindi di Trieste irredenta. Del pezzo di Italia che ci manca, della Dalmazia, dell’Istria, fino alla tragedia delle foibe. In Trentino c’è un ossario che prende il nome di Dante. I nostri eroi nazionali non sono dei Napoleoni, dei generali vittoriosi, dei condottieri, è gente che ha saputo morire e morire bene. Nel Risorgimento, con gli irredentisti, nella Resistenza. Senza piagnucolare, senza maledire i carnefici, avendo parole di pace e di amore per l’umanità. Come nell’ultima lettera di Ciro Menotti alla moglie. Certo uno può dire: che cosa c’entra con Dante? 

 

Ecco, che cosa c’entra?

Da lui partono tanti fili che attraverso quei luoghi, attraverso le sue parole, attraverso i valori che lui esprime, arrivano fino a noi. Anche attraverso l’esilio. Lui è un uomo senza patria. La prima cosa che facevano gli irredentisti in Trentino, italiani che si sentivano italiani ma non potevano essere italiani, è erigere statue di Dante e intitolare scuole a Dante. 

 

Lei stesso ammette che nell’Inferno di Dante “il lettore rischia di perdersi”. Però non gli risparmia nulla, non omette nulla, nessun dettaglio o storie per noi oggi meno significative. Come in un’espiazione necessaria per emergere dal nostro inferno, “dobbiamo risalire fino alle radici scavate e raccontate da Dante”.

Mi sono posto il problema se fosse il caso di raccontare storie che adesso non ci dicono nulla. Che so, Buondelmonte de’ Buondelmonti, per Dante personaggio importantissimo, per noi è un puro nome; Bocca degli Abati, il traditore di Montaperti, a cui Dante strappa i capelli, Filippo Argenti,“spirito maledetto”, che ha schiaffeggiato Dante, possono dirci poco. Ma nel mio libro non c’è un nome dell’Inferno che manchi. Bisognava restituire tutto, raccontare tutto, sia i miti, che la storia del tempo di Dante, che è la nostra storia, che ci riguarda. Ma vorrei aggiungere un’ultima cosa.

 

Prego. Vorrei parlare del ruolo della donna, molto importante nella Divina Commedia. In questo Dante è modernissimo. Qualcuno ha scritto che Dante è il primo femminista, io non mi inoltrerei in questo territorio, non mi piace associare definizioni moderne a epoche lontane, ma sicuramente la sua concezione è molto moderna rispetto a un tempo in cui si discuteva se la donna avesse un’anima o meno. Così scrive che la specie umana si distingue dalle altre proprio grazie alla donna. Che, intendiamoci, non è una donna ‘angelicata’, ma una donna forte. Si pensi a Beatrice, che in Paradiso lo salva, ma lo rimprovera anche, lo sprona a migliorarsi, ad ascendere. Per non parlare di Francesca, figura meravigliosa, vittima di un vero femminicidio. O di Medea, accusata di aver ucciso i figli, che Dante non mette all’Inferno, dove invece mette Giasone, chiosando: “E anche di Medea si fa vendetta”. Noi lo abbiamo capito molto dopo che le donne possono salvare l’umanità, perché sanno prendersi cura della specie umana, della Terra, e oggi governano bene, pensano alle generazioni future; e mi riferisco a leader donne che sono entrate in scena, a figure come Angela Merkel, che in tempi di Covid, hanno saputo gestire l’epidemia meglio di molti colleghi uomini. 

 
 
 

Lavorare per Dio

Post n°3410 pubblicato il 21 Settembre 2020 da namy0000
 

La sorte benedetta di chi lavora per Dio

Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: ‹‹Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?››. Gli risposero: ‹‹Perché nessuno ci ha presi a giornata››. Ed egli disse loro: ‹‹Andate anche voi nella vigna›› (Mt 20,1-16).

‹‹Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?››. Come mai la gente può vivere senza consistenza e nell’inconcludenza? Tanti giovani con il cambio in “folle”, spingi sul gas ma la macchina resta ferma, tante persone come viti spanate, giri ma non succede niente. Perché? La domanda del padrone della parabola sugli operai nella vigna, sembrerebbe alludere a un rimprovero, lo stesso che troviamo sulla bocca degli operai della prima ora: ‹‹Hanno lavorato un’ora soltanto e… noi… abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo››.

 

Proviamo a leggere con una prospettiva meno fredda questa parabola: “lavorare o non lavorare” è uguale a dire “impegnarsi o no” o non piuttosto “avere di che sfamare i propri figli oppure no”? La fatica del lavoro è un peso, certamente; ma è una fatica che segnala la condizione dignitosa di chi ha qualcosa di cui vivere.

 

Il dramma della disoccupazione ha due aspetti: quello economico e quello, non meno tragico, della dignità. Quel che fa soffrire un disoccupato non è solo che non può procurarsi di che vivere, ma anche patire l’umiliazione dell’inutilità. Vedere che nessuno ha bisogno di me, non servo a nulla. L’amarezza degli anziani è la percezione di non essere richiesti, che non si abbia necessità di loro.

 

Avere un lavoro è una cosa grande, è il primo dono di Dio all’uomo: ‹‹Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo…›› - il verbo “dominare” in realtà, in ebraico, vuol dire “governare, amministrare”. È una dimensione che deriva dalla somiglianza con Dio, è qualcosa di celeste che ci abita dentro, ci nobilita e ci realizza, portandoci a costruire tutto il bene che c’è.

 

Come mai qualcuno non fa niente? Ecco la risposta dei disoccupati della parabola: ‹‹Perché nessuno ci ha presi a giornata››. Alla lettera: “Assunti a salario”.

 

Il fenomeno di un numero crescente di giovani che non cercano lavoro è la condizione di anime senza salario, senza qualcuno che metta in relazione la fatica con un risultato, con un riscontro, con un’utilità. È il non senso.

 

Che sorte benedetta, quella di poter lavorare, faticare, spendersi e stancarsi per qualcosa di valido. Essere presi a lavorare per il migliore dei padroni, che sa dare la paga di un giorno che è oggi, che è il senso della vita, per farci fare cose tanto belle, le sue opere. San Paolo dice: ‹‹Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone›› (1Cor 9,16) ossia: servire il Signore non mi dà diritti da accampare ma assolve le mie necessità, mi risolve. Non io servo Lui, quando faccio la sua volontà, ma il contrario.

 

Ecco il non senso: non conoscere la ricompensa di questo padrone, e restare indefiniti, aspettando qualcuno che dia la vera ricompensa al nostro cuore… (Fabio Rosini, FC n. 38 del 20 settembre 2020)

 
 
 

Uno splendido affresco poetico

Post n°3409 pubblicato il 21 Settembre 2020 da namy0000
 

Uno splendido affresco poetico

Il Siracide rappresenta la grandezza di Dio con la bellezza della Natura: il firmamento, la neve e la brina, la rugiada e il mare innalzano un inno di lode al Creatore.

‹‹La Natura ha delle perfezioni per mostrare che è l’immagine di Dio, e dei difetti per mostrare che ne è soltanto l’immagine››. Così il grande credente, pensatore e scienziato secentesco francese Blaise Pascal nei suoi Pensieri. Noi, tenendo in mano la Bibbia e sfogliandone alcune pagine, abbiamo da tempo voluto rappresentare le perfezioni del Creato. Lo facciamo anche questa volta, invitando i lettori a contemplare uno splendido affresco poetico, tratteggiato dal Siracide, un sapiente biblico del II sec. a.C.

Si tratta di un inno che inizia in 42,15 del suo libro e si conclude in 43,33, segnato dalla convinzione che la Natura sia appunto un’‹‹immagine di Dio››, anche se limitata e imperfetta. Infatti, ‹‹come il sole che sorge illumina tutto il Creato, così della gloria del Signore è piena la sua opera›› (42,16). Per questo, di fronte all’architettura cosmica, l’uomo non può che esclamare: ‹‹Egli (Dio) è tutto›› (43,27). Il poeta s’affaccia con stupore sulle meraviglie dell’Universo che sfilano davanti ai suoi occhi affascinati da tanta bellezza, quasi fosse una ripresa filmica.

 

Si parte dal firmamento luminoso, dominato dall’incandescenza dei raggi solari. Subentra il quadretto dedicato alla Luna che è simile a un orologio cosmico perché scandisce il calendario liturgico e civile che allora era lunare e non solare. Ad essa si associano le stelle, simili a sentinelle che vegliano nella notte. Subito dopo irrompe maestoso l’arcobaleno, tracciato nel cielo dalla stessa mano divina. Subentra, poi, la meteorologia coi fulmini, le nubi che ‹‹volano come uccelli da preda››, i chicchi di grandine, il tuono che fa sobbalzare la terra, i venti impetuosi.

 

Una deliziosa miniatura è riservata alla neve, la cui caduta lieve è comparata al volo degli uccelli e degli stormi delle cavallette: ‹‹Il suo candore abbaglia gli occhi e, al vederla fioccare, il cuore rimane estasiato›› (43,18). Tocca, poi, alla brina, i cui grani brillano come cristalli sui rami. Queste immagini invernali si chiudono con la gelida tramontana che fa ghiacciare le acque, rivestendole quasi di una corazza.

 

È la volta, poi, per contrasto dell’estate che, con la sua arsura, fa bruciare la vegetazione e fa sospirare la rugiada che feconda il terreno arido. L’ultima serie di scene è dedicata al mare ove sono ‹‹piantate›› come oasi o fiori le isole. Delle sue profondità abissali, popolate di mostri, delle sue tempeste furiose e dei relativi territori rimangono le testimonianze dei naviganti che possono salvarsi solo affidandosi alla parola divina che placa le onde (si legga anche l’emozionante rappresentazione marina del Salmo 107,23-32).

 

L’esclamazione iniziale dell’inno del Siracide suonava così: ‹‹Quanto sono amabili tutte le sue opere! Eppure appena una scintilla riusciamo ad osservare… Chi si sazierà di contemplare la sua gloria?›› (42,22.25).

La finale è analoga: ‹‹Egli è il Grande al di sopra di tutte le sue opere… Chi lo ha contemplato e lo descriverà, chi può magnificarlo come egli è? Vi sono molte cose nascoste più grandi di queste: noi contempliamo solo una parte delle sue opere›› (43,28.31-32). L’inno non è, dunque, una lirica sulla Natura ma una preghiera di lode al Creatore (Gianfranco Ravasi, FC n. 38 del 20 settembre 2020).

 
 
 

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