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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 05/03/2021

La verità esiste

Apriamoci al reale, perché la verità esiste.

Sotto le parole, se resiste qualcosa, sono i fatti

La parzialità è un tema cruciale del giornalismo e della democrazia. Il giornalismo può essere fazioso, ma non omissivo. Forse non è facile sempre separare i fatti dalle opinioni, però possiamo provare almeno a separare i fatti dai pregiudizi. Cioè, puoi provare a modificarli, a non vederli, a nasconderli, ma alla fine applichi i minimi criteri di logica, di razionalità, di controllo, i fatti irrompono con forza. Puoi annunciare mille volte la trattativa Stato-mafia, ma se tutti o quasi vengono assolti, da tribunali diversi, almeno una domanda sulla fondatezza dell’inchiesta devi fartela. Puoi giurare che Olindo e Rosa siano innocenti della strage di Erba, ma se la Cassazione, più volte interpellata, dice che non ci sono novità e le prove sono sicure, perché organizzare programmi innocentisti? Puoi scrivere (oppure ordinare di scrivere) che Imane Fadil, modella marocchina, sia stata avvelenata, ma se l’autopsia esclude i veleni (e li escludeva anche la logica e la conoscenza minima della realtà e della persona), perché alla fine di un errore in buona fede non chiedere scusa?

I fatti sono come le malattie, come i terremoti, come la poesia, come l’amore: per quanto tempo puoi far finta che non ci siano?

Il tema, però, è che i fatti nelle nostre vite in mezzo alle fonti d’informazione irrompono a volte quando la verità e la realtà non importano più davvero; quando diventano materia per gli storici, e non per il voto; quando l’opinione pubblica è stata influenzata, deviata, manipolata e, in altre parole, imbrogliata. Tanto, si sa, la gente dimentica e quando uno ricorda diventa un guastafeste e un ritardatario. Forse è più facile rappresentare il guastafeste per chi, come me (devo dichiararlo), ha in tasca solo la tessera dell’Atm, di un circolo sportivo e di qualche negozio, e mai di un partito. O per chi non baratterebbe la carriera e la propria identità per commettere azioni che rappresentano un insulto all’intelligenza media. Per alcuni non è complicato svendere la dignità personale e di un mestiere importante per la democrazia. Per altri è difficilissimo, visto che il giornalismo ha tra i suoi compiti quello di fornire alle persone gli elementi per comprendere meglio una storia, un personaggio, una situazione. Molto è certamente opinabile, specie in questa stagione di chiacchiere da social che diventano semi-notizie; fattoidi che vengono presentati come fatti; influencer (cosiddetti) che si creano un reddito impastando le notizie di altri, mistificando, riassumendo deliri. Sono chiacchieroni e sembrano giornalisti: ed è un guaio.

Per questo, se fosse possibile vorrei regalare ai lettori di Scarp, e non solo, un momento di “grande nulla”. Non quello inquietante de La Storia Infinita, niente Bastian, Atreyu, il lupo Gmork, e soprattutto niente Paludi della tristezza. Ma proprio il nulla. Spegnere il telefonino. Spegnere il pc e l’Ipad. Spegnere per un po’ ogni forma di informazione che passi attraverso internet e, nonostante il Covid, accettare qualunque relazione di persona. Ragionare tre minuti con chi chiede l’elemosina davanti a rosticcerie, chioschi e supermercati. Affacciarsi al balcone e salutare i vicini. Apriamoci al reale, è giunta l’ora.

«Amo molto parlare di niente. È l’unico argomento di cui so tutto», scherzava Oscar Wilde. Avercene, oggi, di scrittori così. Avercene di geni alla Samuel Becket, per il quale: «Niente è più reale del niente». Perciò, quando siete stanchi, quando ne avete sentite troppe, state alla larga dai social per qualche giorno. Chi può, lo faccia: noterà una cosa sconvolgente. Vedrà che non cambia niente. E che, sotto le parole, se resiste qualcosa, sono sempre i fatti. Duri come pietre. La verità esiste, chi dice che non esiste non ha mai voluto far fatica a cercarla. Com’è più facile chiacchierare. Com’è più facile schierarsi da una parte, quella dove la parzialità rende (Piero Colaprico, Scarp de’ tenis, Febbr. 2021).

 
 
 

Combattere le ingiustizie

Ad Auschwitz, Anina maturò la scelta di combattere le ingiustizie sempre

Nel 2013, un giorno d’estate, in memoria di quanto successe nel 1944, che fra il 31 luglio e l’1 agosto, in una sola notte, ad Auschwitz vennero assassinati nelle camere a gas 4.000 prigionieri dello Zigeunerlager, il campo degli zingari, in quel campo, arrivò in visita un gruppo di centinaia di giovani, rom e gagé (non rom), convocati dalla rete Ternype (gioventù in romanés). C’era tra loro una ragazza di ventidue anni, Anina C., che al pensiero della visita aveva trascorso la notte insonne. Arrivata di fronte alla vetrinetta dov’erano esposti dei vestiti da neonato, scoppiò a piangere. E non riuscì a calmarsi fino a quando quelle centinaia di giovani non si unirono in una marcia gloriosa, consapevoli che, nonostante tutto, il nazismo non aveva vinto.

Oggi Anina ha 31 anni, vive in Francia e lavora come avvocato. Rumena di Craiova, ha ottenuto la cittadinanza francese. È presidente dell’associazione, Aset93, che si occupa di far studiare i bambini dei quartieri disagiati. Ha raccontato la sua storia quattro anni fa in un libro dal titolo: Sono rom e ne sono fiera (Je suis tzigane e je le reste, nell’edizione originaria francese).

Nella Romania in cui Anina era nata, l’essere rom – e, soprattutto, il fatto di avere “una faccia da rom” – si pagava con la discriminazione, il razzismo, la perdita del lavoro. Per questo, dopo la caduta del comunismo, la famiglia aveva deciso di fuggire verso ovest.

Prima tappa, Roma: il degradato e degradante Casilino 900, oggi raso al suolo, dove i C. – padre, madre e quattro bambine – avevano abitato in baracca e tentato di sopravvivere chiedendo l’elemosina. Dopo sei mesi si erano spostati in Francia, attratti dal sogno di vivere nel «Paese dei diritti umani». Anche lì, però, stenti, umiliazioni: per Anina e le sue sorelle, giornate intere passate a mendicare con la mamma mentre il padre tentava di rimediare di che vivere vendendo giornali di strada e mesi d’angoscia nel terrore di essere espulsi. Fino all’incontro con una insegnante che prese a cuore la sorte di quella famiglia stretta nella tenaglia fra pregiudizi e burocrazia. Con l’aiuto di quella donna, Anina trovò lo slancio per avviare una brillante carriera negli studi che l’avrebbe portata a laurearsi nella prestigiosa Università della Sorbona e a diventare avvocato per combattere l’ingiustizia, quella stessa che fin da bambina aveva sentito pesare sulla sua famiglia.

In un tempo in cui la pandemia moltiplica povertà e ingiustizia, val la pena ricordarsi di una bambina la cui sorte è stata rivoluzionata dalla cura e dall’attenzione di una donna di buona volontà. «Se ognuno fa qualcosa – era il motto di don Pino Puglisi, il parroco del quartiere palermitano di Brancaccio, ucciso dalla mafia – allora si può far molto».

La storia di Anina C. dimostra che aveva ragione. (Scarp de’ tenis, Febbr. 2021).

 
 
 

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