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Un mondo nuovo

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Messaggi del 18/04/2021

La prima volta che

2021, HuffPost 18 aprile

“La prima volta che sono venuta in Italia sono rimasta solo cinque mesi. Avevo lasciato mia figlia di due anni in Romania. Sono tornata perché stare lontana da lei, per me, era troppo doloroso”. Francesca (nome di fantasia) non ha esitazioni nella voce. Ha un piglio ruvido, il carattere deciso di chi ha preso la sua vita tra le mani e ne ha fatto una scommessa. Perché ci vuole coraggio, amore, generosità e forse un po’ di incoscienza per lasciare la propria terra e i propri figli e tentare la sorte in un Paese straniero, l’Italia appunto, dove risiedono oggi circa 1 milione e 200 mila romeni, secondo i dati Istat. Un esodo che è soprattutto femminile. Donne che con un bagaglio di fortuna e quattro soldi in tasca arrivano nel nostro Paese per “prendersi cura” dei nostri fragili, ma anche per lavorare nei campi, nei cantieri. Affrontano questo sacrificio per migliorare la vita dei propri figli, permettere loro di studiare, per donare loro più di quello che hanno potuto ricevere. Ma la maggior parte delle volte il cammino si trasforma in una strada tortuosa, lastricata di dolore, solitudine, abbandono, senso di colpa.

Quella di Francesca, però, è una sfida vinta, una storia a lieto fine, anche se non priva di ostacoli. “Io sono di Galați. Sono arrivata in Italia nel 2004 per cercare un lavoro, volevo dare una vita migliore a mia figlia che all’epoca aveva due anni”, ci spiega. “La prima volta sono stata distante 5 mesi, poi sono rientrata perché non riuscivo a stare senza di lei. Mi sono detta: preferisco la povertà, magari mangiare un uovo, metà io e metà lei, ma la distanza era troppo dolorosa”. La bambina era rimasta, infatti, con la madre di Francesca in Romania, ma nonostante la tenera età soffriva la lontananza della mamma: “In 5 mesi l’ho sentita 3/4 volte al telefono. All’inizio mi diceva: quando torni? Quando vieni? Poi deve aver pensato che non tornassi più, perché non mi voleva più parlare”.

E’ lì che il cuore di Francesca comincia a rompersi piano piano. Comincia a chiedersi se ne vale la pena, inizia a pensare di preferire la povertà all’abbandono e alla dimenticanza di sua figlia. “Sono rientrata in Romania e solo quando ho potuto portare anche lei con me, era il 2007, aveva 4 anni e mezzo, sono tornata in Italia e qui oggi ho la mia famiglia: mio marito e le mie tre figlie. Non è stato facile, mi manca sempre la mia terra e mia madre, che ho lasciato lì e che a 78 anni avrebbe bisogno di essere accudita, ma la nostra vita adesso è qui”.

Ma le cose non vanno sempre così. Non ha avuto lo stesso esito il tentativo di Roberta (nome di fantasia) venuta in Italia dalla Romania senza nessuno, con tre figli lasciati in custodia a sua madre. Il più piccolo alla sua partenza aveva 1 anno, lo rivedrà quando ormai ne avrà 8. Nel frattempo sono passati 13 anni, lei è sempre in Italia a lavorare, e quei bambini sono diventati adulti: il più grande ha più di 20 anni, la figlia ne ha 20, il più piccolo 14. Ha regalato loro una vita migliore? “Nella quotidianità sì, con i soldi spediti hanno una vita dignitosa, ma hanno smesso di studiare. Quando provo a consigliarli, a riprenderli anche, ho da loro sempre la stessa risposta: ‘ci hai abbandonati da piccoli, ora che vuoi da noi?‘”, ci dice Roberta, una donna granitica che sgretola le sue lacrime solo al ricordo di quel che è stato. Questa è una sorte che tocca a molti figli lasciati dalle madri a crescere da soli: vanno presto a lavorare nei campi, molti emigrano alimentando questo massiccio esodo dalla Romania in cerca di lavoro. Pochi riescono davvero a corrispondere il sogno di “una vita migliore” che i loro genitori cercano di costruire loro. Perché? Perché si perdono. Perché crescono senza mamma e senza papà. Sono quelli che vengono identificati come “left behind”, letteralmente ‘lasciati indietro’. Bambini abbandonati. Soli. Senza amore. Senza guida. Perduti. Sono oltre 350 mila in Romania, secondo l’Unicef.

“I bambini lasciati in Romania pensano di essere stati abbandonati”, ci spiega Silvia Dumitrache, presidente dell’Associazione Donne Romene in Italia, “vedono le madri andare via ed è inutile spiegare loro che sono andate per lavorare, guadagnare, garantire loro una vita migliore. Scoprono un giorno che la madre non c’è e pensano che sia colpa loro”. Aspettano il ritorno della madre, ma passano anni e questa lontananza li uccide poco per volta. A volte anche in senso letterale. “In Romania dal 2010 ci sono stati circa 100 suicidi infantili”, ci racconta Silvia Dumitrache. “Ho raccolto la storia di un bambino che si è tolto la vita nell’illusione che questo gesto potesse far tornare la mamma. Aveva 11 anni. Un giorno parlando con un compagno di banco, gli ha detto: ‘Vedrai che domani farò tornare la mamma’. Il giorno seguente si è tolto la vita. E la mamma è tornata, ma per seppellirlo”.

“Ci sono certamente storie a lieto fine, ma se guardiamo in generale la radiografia della Romania, ci troviamo di fronte a un Paese in cui manca manodopera, con aree rurali popolate solo da vecchi e bambini, con analfabetismo alle stelle, elevato abbandono scolastico e già alla seconda generazione di figli “left behind”, che lasciano la scuola verso i 15 anni, vanno a lavorare nei campi e a 18 vanno all’estero per lavorare. Dove è la crescita che il sacrificio di queste donne dovrebbe portare? Non si costruiscono scuole, ospedali, asili nido e nel frattempo si accresce la piaga dei figli abbandonati e del “Mal d’Italia”, incalza Silvia Dumitrache.

Perché c’è un altro aspetto in questa vicenda. In Italia e negli altri Paesi europei in cui queste donne emigrano, molto spesso il lavoro è usurante. “Un vero e proprio sfruttamento istituzionalizzato”, ci dice Silvia Dumitrache. “Queste donne riportano grossi problemi di salute perché non si può lavorare 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Non hanno vita privata, non possono socializzare, stanno sempre chiuse in casa, all’inizio sono prese per curare una persona, ma finiscono per occuparsi di tutta la famiglia. Non tutte le famiglie, poi, fanno contratti di lavoro. Vengono pagate direttamente, prendono i soldi in mano: gesto che poco per volta dà l’impressione che il lavoratore ti appartenga, non lo vedi più come una persona, ma come un’utilità”.

Due psichiatri ucraini notarono che alcune donne che tornavano dall’Italia avevano sindromi depressive e definirono questo malessere da burnout “sindrome italiana” o “mal d’Italia”. Molte di loro al rientro in Romania finiscono in cliniche psichiatriche per curare questa “patologia”: un deperimento psico-fisico dovuto al dolore per la lontananza dai figli, alle preoccupazioni famigliari e alle condizioni di lavoro che sono costrette a sopportare. “Siamo stanchi di essere invisibili”, sbotta Silvia Dumitrache. “Non ne possiamo più di questa indifferenza. In Italia siamo circa 1 milione e 200mila e non abbiamo consiglieri, ad esempio: perché i romeni non vanno a votare? Perché la politica italiana ti fa sentire sempre uno straniero? Alle amministrative devi iscriverti alle liste elettorali 40 giorni prima, ma perché non si viene iscritti all’anagrafe al momento della ricezione della carta d’identità?”.

 

E i romeni non sono l’unico popolo a subire queste storie di migrazione e sfruttamento: “Siamo invisibili, i nostri figli lo sono, non solo quelli dei romeni, ma di tutti gli europei più poveri. Questa è un racconto che nasce dalla povertà e dalla disperazione. E povertà e disperazione non hanno cittadinanza”.

 
 
 

Non avere paura

2021, Avvenire 17 aprileCovid. Vaccini, Marcucci: ecco perché non avere paura delle trombosiL’esperta del Careggi chiamata dall’Ema per la revisione del vaccino: sicuro sugli over 60. «Nessun rischio per chi ha avuto già disturbi cardiovascolari in passato. Più pericoli con il Covid»

La mail dagli uffici dell’Ema è arrivata ai primi di marzo, quando si è cominciato a sospettare in tutta Europa che i – pur rarissimi – casi di trombosi registrati qualche giorno dopo la somministrazione del vaccino AstraZeneca, col vaccino qualcosa dovevano centrare. Servivano dati e analisi, per una revisione in tempi rapidi. Sono stati chiesti ai luminari nel campo delle malattie aterotrombotiche e vascolari di tutto il continente e tra loro c’è la nostra Rossella Marcucci, direttore del Centro di riferimento per la trombosi dell’Ospedale Careggi di Firenze, professore associato di Medicina interna all’Università di Firenze e membro del gruppo Scienziate per la società. Un curriculum sconfinato di incarichi e pubblicazioni su questi temi, finora piuttosto sconosciuti all’opinione pubblica (anche se le trombosi sono tra le patologie più frequenti nel mondo occidentale).

Professoressa, che idea si è fatta studiando i fascicoli che l’Ema vi ha trasmesso?
Ci siamo resi subito conto di essere innanzi a delle trombosi anomale, diverse da quelle che fino a quel momento avevamo incontrato. Il binomio caratteristico di questi eventi era infatti l’associazione dell’evento trombotico al basso livello di piastrine. E poi c’era la stessa tipologia di trombosi (cerebrale o addominale), la concentrazione in una fascia d’età del tutto inattesa (persone giovani, in prevalenza donne) e il timing preciso (dai 5 ai 15 giorni dopo la prima iniezione).

Insomma, non ha avuto dubbi che il nesso tra vaccino e trombosi esistesse?
Con evidenza quel nesso esisteva ed esiste. E questa però è anche l’unica certezza che per ora abbiamo: servirà moltissimo tempo per comprendere il meccanismo di queste reazioni, che chiaramente – data l’estrema rarità dei casinasce nella correlazione con la storia dei pazienti e coi fattori specifici che li contraddistinguono. Una conferma ulteriore di questa correlazione ci è arrivata però dagli Usa con il caso di Johnson&Johnson: lo stesso tipo di vaccino, a vettore virale, è legato allo stesso tipo di trombosi nella stessa fascia di popolazione.

I vaccini a vettore virale, dunque, non sono sicuri?
Tutt’altro, lo sono ancora di più proprio perché grazie a una risposta immediata sul fronte della ricerca e dell’analisi scientifica abbiamo individuato – almeno nel caso di AstraZeneca – come usarli in sicurezza. Cioè, somministrandoli in quelle fasce di popolazione e di età in cui queste eventi non si sono presentati e non si presentano. Ricordiamo sempre che proprio AstraZeneca fornisce una protezione del 100% rispetto alle forme gravi della malattia.

Nessuna trombosi anomala negli over 60?
In base ai dati che possiedo, no. In ogni caso credo che al primo caso sospetto ci sarebbe stata la stessa immediata reazione che abbiamo visto scattare a marzo: la sorveglianza clinica è stata altissima. Invece non ne abbiamo avuto notizia, nonostante ormai da settimane AstraZeneca sia somministrato agli anziani in tutta Europa.

Quali sintomi, in ogni caso, dovrebbero indurre una persona a recarsi immediatamente all’ospedale dopo la vaccinazione?
Sintomi gravi, impossibili da sottovalutare: un’emicrania persistente, farmacoresistente e invalidante, associata a disturbi neurologici importanti. O crampi addominali insopportabili, per cui non esista alternativa al Pronto soccorso. Qualche linea di febbre, o una leggera cefalea, sono reazioni assolutamente normali al vaccino che non devono spaventare nessuno.

Le trombosi legate al vaccino possono essere curate?
Certamente. Come Società italiana di emostasi e trombosi abbiamo già trasmesso tutti i dati disponibili e i protocolli di intervento a tutti gli ospedali italiani: i medici sanno come affrontare i casi sospetti e il tipo di terapia anticoagulante da somministrare.

Chi ha avuto trombosi in passato è più a rischio? Questa, per esempio, è una delle preoccupazioni maggiori tra gli anziani...
Assolutamente no: non esiste alcuna associazione tra queste trombosi rare legate al vaccino e storie personali o familiari di trombosi. Invece attenzione, mi permetta di sottolinearlo con forza, questa associazione esiste, eccome, col Covid: chi cioè ha sofferto di trombosi in passato rischia moltissimo nel caso di contagio. Soprattutto se ha più di 60 anni. Ecco perché non dovrebbe aver alcun dubbio nel vaccinarsi.

E chi invece assume anticoagulanti, è meno a rischio?
Non ci sono prove di questo. Mi sentirei, in ogni caso, di parlare di un motivo aggiunto di tranquillità.

Prendiamo invece il caso di un’insegnante di 45 anni che abbia ricevuto la prima dose di AstraZeneca. Può ricevere la seconda a cuor leggero?
È un punto dolente, perché non abbiamo dati al momento: i nostri studi si sono basati solo su casi legati alle prime somministrazioni. Mi aspetto una decisione chiara e ben soppesata in tempi rapidi da parte delle agenzie regolatorie: i richiami, in Italia, scatteranno a maggio. Teniamo comunque presente che non siamo in possesso di dati nemmeno rispetto all’eventualità di una seconda somministrazione con un vaccino diverso. Tutte le scelte comportano un rischio, da calcolare di volta in volta. Del rischio del Covid, invece, abbiamo già contezza piena: il beneficio dei vaccini resta in ogni caso di gran lunga superiore.

Cosa pensa della possibilità, ventilata da molti in questi giorni, che i vaccini a vettore virale possano essere presto abbandonati a favore di quelli a mRna, che non hanno presentato eventi avversi così seri?
I vaccini a vettore virale sono, per loro stessa natura, destinati ad avere vita breve: il sistema immunitario impara col tempo a riconoscerli e si abitua, per così dire, all'adenovirus che viene utilizzato al loro interno. Non sarebbero comunque utili per eventuali richiami, in futuro (anche se tutti speriamo che non ci debbano servire). I vaccini ad mRna e a proteine ricombinanti invece, come il NovaVax che presto sarà approvato, non presentano questo limite: la tecnologia con cui sono stati costruiti è straordinaria ed è facile pensare che potranno essere utilizzati con successo in futuro, anche dopo il Covid, per altre malattie. D'altronde non vedo nulla di male nel fatto che nel tempo, accorgendoci di avere dei vaccini più efficaci, scegliamo di utilizzare questi ultimi. La scienza fa questo: agisce modificando subito il suo percorso in base ai fatti, si adatta strada facendo. Non ci dovrebbe essere nessuno sgomento.

 
 
 

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