Messaggi del 17/01/2025
Post n°4089 pubblicato il 17 Gennaio 2025 da namy0000
2024, Daniela Palumbo, Scarp de’ tenis, Ottobre Alganesh Fessaha. Una speranza per tutti i migranti: Ci dobbiamo amare per amare gli altri Alganesh Fessaha è nata in Eritrea, in un piccolo paese, Zazzega, nel 1950, ma subito la sua famiglia si è trasferita ad Asmara, dove ha vissuto fino al liceo. Vive a Milano da oltre cinquant’anni e ha studiato all’Università Cattolica, facoltà di scienze politiche. Quando le chiedi se il colonialismo è finito, ti guarda sorridendo e spiega che ha solo cambiato abito. Poi racconta di quando era studentessa e Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, era il suo professore. Alganesh doveva sostenere un esame con lui. il professore le chiese cosa ne pensasse del colonialismo, affermando che gli italiani avevano portato in Africa cultura e civiltà. Lei reagì. «Dissi che gli italiani avevano derubato, distrutto e creato situazioni di ghettizzazione nel mio Paese. Il professore strappò il mio statino e mi disse di ripresentarmi». Lei lo fece tre volte, ma il professore ripeteva sempre la stessa scena e Alga fu costretta a cambiare università. Quel carattere di donna ribelle e volitiva non l’ha abbandonata e all’inizio lo mise al servizio della carriera. Divenne manager di una multinazionale, lavorava in Sudan. «Avevo abbandonato l’amore per il prossimo insegnatomi dai miei genitori. Pensavo solo alla carriera. Ma nel 1998 cambiò tutto. La mia vita ebbe una svolta e da allora mi sono sempre dedicata alla lotta del traffico di esseri umani e all’aiuto alle vittime». Alga era andata a Kessala, in Sudan, per vedere i campi profughi dove si erano rifugiati gli eritrei in fuga dalla guerra che in quel periodo era scoppiata con l’Etiopia. Si aggirava nel campo sconsolata pensando all’ingiustizia della guerra, ma forte della sua posizione privilegiata rispetto alla miseria che incontrava. Un viaggio per cambiare «All’improvviso vidi cinque ragazzi tristi e magri. Il più grande aveva 13 anni e sembrava proteggerli. Il dialogo con quegli innocenti, che non chiesero il mio aiuto, mi fecero sentire responsabile della sorte che li aspettava. Tramite alcuni amici chiesi aiuto ai frati cappuccini di Milano e, grazie a padre Annoni e padre Haile (oggi scomparsi), iniziammo un’adozione a distanza. Sono riusciti a studiare e oggi sono adulti che lavorano e vivono ancora insieme, con le loro famiglie. Quel viaggio mi ha cambiata, sono diventata consapevole che se conosci le persone e capisci il problema allora tutto è possibile e niente è inevitabile, dipende da noi, dalla nostra umanità». Nel 2003 ha creato insieme a medici, professori universitari e avvocati, l’ong Gandhi Charity rivolta al sostegno di bambini, adolescenti e donne attraverso progetti di assistenza in diversi Paesi africani, in Europa e in India. «Abbiamo cominciato dalla Costa d’Avorio prendendo in carica con adozioni a distanza i bambini di strada. Abbiamo aperto scuole per 200 ragazzi e ragazze, ricordando sempre ciò che mia madre mi diceva: il denaro lo puoi perdere, la conoscenza non la perderai mai». L’incredibile storia di questa donna è stata raccontata da Paolo Lambruschi, giornalista di Avvenire, nel libro Doctor Alganesh. Donna della speranza. Edito da Ancora. L’abbiamo incontrata a Milano, dove vive, in un piccolo caffè-libreria, nella periferia sud della città, dove Alga è di casa. Quando la vediamo è appena rientrata da uno dei suoi viaggi. Alganesh è sempre stata in prima linea per liberare i migranti rinchiusi nei lager dei trafficanti di esseri umani. Dal 2006 al 2013 le gang di nomadi del Sahara sequestravano i profughi eritrei, somali, sudanesi ed etiopi – che volevano raggiungere Israele per poi andare in Europa – rivendendoli ai beduini che abitano il deserto del Sinai. Nei lager dove i profughi erano torturati e stuprati, i beduini avevano organizzato un traffico di esseri umani che andava dal ricatto ai parenti all’espianto di organi da immettere sul mercato nero. Alganesh è riuscita a liberarne migliaia grazie all’aiuto di uno sceicco. «Il mio alleato era un salafita, dell’islam integralista, uno sceicco del Sinai che non tollerava questi abusi». In quegli anni, insieme a Gandhi Charity questa donna ha, inoltre, evacuato dalle prigioni egiziane i profughi eritrei e sudanesi con l’aiuto del governo etiope. «Il nostro è stato il primo corridoio umanitario, ed è avvenuto perché il governo etiope, a differenza di altri Stati africani e dell’Europa, ha accettato di aiutarci. L’Etiopia ha fornito ai migranti dei lasciapassare per poi garantirgli lo status di rifugiato. La ong metteva a disposizione il denaro per i voli dal Cairo all’Etiopia e l’assistenza nel campo allestito dal governo. Per questo in Eritrea mi accusano di dirottare gli eritrei in Etiopia». In realtà i giovani eritrei continuano a fuggire dal Paese perché il dittatore Isaias Afewerki, ha istituito un servizio militare illimitato rendendo schiavi i ragazzi fin dall’età di 16 anni, provocando un esodo che dura da decenni. Quando Israele ha alzato un muro al confine col deserto, il traffico di esseri umani in Sinai è stato fermato. Ma si è spostato in Libia. E anche nelle prigioni libiche i prigionieri scrivono sul muro il telefono di Alganesh. Qualcuno la chiama. E lei cerca di capire come poterli salvare. In uno di questi viaggi in Libia, pochi anni fa, le è stata tesa una trappola. Una voce chiedeva aiuto al suo telefono, dalle carceri libiche, per liberare delle donne con bambini. Servivano soldi per la liberazione. Quando è arrivata in Libia è stata aggredita. «Avevo cinquemila euro nel marsupio, in una via stretta mi hanno assalita. Prima una botta in testa e poi calci e pestaggio quando ero a terra. Mi hanno salvato delle donne che hanno visto la scena dal loro balcone. Hanno cominciato a gridare e gli assalitori sono fuggiti. Sono scese, mi hanno portata in casa e curata come se fossi una di loro». Corridoi lavorativi In questi ultimi anni Gandhi Charity ha fatto uscire 700 persone dalla Libia. «Sono salvi, ma il loro destino non è luminoso. Nel campo profughi, in Etiopia, la loro vita è spenta, senza futuro. Come per tutti quelli che restano anni nei campi. Ci stiamo occupando delle borse di studio. E miro a costruire corridoi lavorativi: li hanno iniziati in Canada e in America. Può funzionare. Come ong abbiamo realizzato un corso di cucina, di cucito, di assistenza psicologica e di estetica per venti ragazze del campo. È un test, se funziona le donne troveranno lavoro in Etiopia o altrove. I governi stanno scoprendo il corridoio lavorativo e noi ci prepariamo: sarebbe bello che si iniziasse a dare ai profughi una professionalità, così avrebbero una vita, in un Paese dove pagano le tasse e hanno il rispetto e la dignità. Per diversi anni ho istituito corridoi umanitari e universitari però manca qualcosa, manca un lavoro per il domani». Nel salutarla, le chiediamo perché ha scelto una vita con un portato di sofferenza immensa, incessante. «Dico sempre: qualcuno duemila anni fa ha detto ama il prossimo tuo come te stesso. Vuol dire che ci dobbiamo amare, per amare gli altri. Allora, io credo di amarmi molto!». |
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