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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 22/01/2025

Cambiare si può

2025, Avvenire, 21 gennaio

Vite cambiate. Ambrogio e Roberto, da narcotrafficanti all'impegno oltre il carcere

Arricchitisi con gli stupefacenti, in carcere entrano in contatto con persone recluse a causa della tossicodipendenza. Da qui parte il cambiamento e l'idea di sentirsi «testimoni del bene»

Questo articolo è la tappa di un viaggio nel mondo delle carceri alla ricerca di “punti di luce”, storie di persone nelle quali l’avere trovato ragioni di speranza, pur nelle difficili condizioni della detenzione, alimenta il desiderio di cambiare vita. Scopriamo che la persona non può essere definita dal suo errore, dal reato che ha compiuto, ma può sempre ripartire.

Nella vita ci sono momenti in cui il passato presenta il conto - un conto spesso doloroso - al presente. E il presente ne fa tesoro per provare a costruire un futuro diverso da quel passato. Sono momenti che la mente umana non sa prevedere, non sa neppure immaginare, ma che accadono. Forse perché c’è di mezzo un disegno misterioso, nel quale la resa dei conti si trasforma in un trampolino per la ripartenza, occasione per una rigenerazione umana. È quello che è accaduto ai protagonisti delle due storie che andiamo a raccontare, legate alla parola “droga”. Ambrogio e Roberto non ne hanno mai fatto uso ma la conoscono bene, è stata per tanti anni la loro fonte di arricchimento. Fino a quando è diventata il boomerang che li ha portati in carcere. Il curriculum di Ambrogio - da un anno tornato in libertà dopo dodici di reclusione - è segnato da diverse condanne, la più importante per traffico internazionale di stupefacenti. Arrestato in Germania nel 2011, conosce le carceri di Rebibbia, Vibo Valentia, Reggio Calabria, Opera.

È lì che si imbatte nell’altra faccia della sua attività, qualcosa che prima volutamente ignorava: è il volto allucinato e scavato dei tossicodipendenti incontrati in prigione, la sofferenza di quanti non ce la fanno a campare senza le sostanze. Disposti a tutto, anche a commettere reati. «Come Ruggero, 19 anni, che non riesce più a saldare i debiti con il pusher, e una sera per procurarsi il denaro rapina un benzinaio, gli mette la pistola alla tempia, quello reagisce, lui spara, l’ammazza, si becca l’ergastolo. Quando sono finito in carcere ho visto con i miei occhi gli effetti devastanti di quella che per tanti anni ho sciaguratamente considerato un’attività imprenditoriale. Ho avvelenato migliaia di persone, però io non le vedevo, non le conoscevo: mai venduto neppure un grammo, non mi sporcavo le mani con lo spaccio, me ne stavo beatamente molto più in alto, dirigevo il traffico tra Sudamerica e Italia, importavo veleno senza pensare a chi lo assumeva. Con il denaro guadagnato ho fatto la bella vita – Caraibi, Brasile, barche, compagnie allegre... – e procurato morte. Poi, in carcere, arriva quella che considero una specie di pena del contrappasso: l’impatto con le vittime delle mie imprese, la presa d’atto del male compiuto, lo schifo provato per la mia persona. Per mesi facevo la barba nella doccia, non avevo il coraggio di guardare la faccia allo specchio… Anni di carcerazione trascorsi maledicendo il mio passato».

È proprio dallo schifo per il passato e dalla compassione per le vittime dei suoi reati che fiorisce il desiderio di cambiare. «Non potevo rimediare al male che avevo procurato ma volevo abbracciare la loro fragilità, rendermi utile in qualche modo. E il Principale mi è venuto incontro, ha mostrato una strada». Lo chiama così - “il Principale” - quel Dio che si è manifestato con una proposta inattesa che ha acceso la fiammella della speranza nel buio della detenzione. Grazie all’amicizia con i volontari dell’associazione Incontro e Presenza che lo vanno a trovare in carcere – «i miei angeli custodi, non mi hanno mai mollato» – incontra Davide, responsabile della cooperativa sociale Pandora che gli propone di lavorare all’accoglienza in un centro che aiuta le persone prigioniere della dipendenza da sostanze. È il primo vero lavoro di Ambrogio, dopo tanti anni da trafficante professionista. Ottiene l’applicazione dell’articolo 21, la norma dell’ordinamento penitenziario che autorizza i detenuti a svolgere attività fuori dal carcere, e a settant’anni inaugura una nuova stagione della vita: ogni giorno ottanta minuti di viaggio da Opera al luogo di lavoro in via Ventura, periferia di Milano, tre autobus, 48 fermate, l’ebbrezza dei primi assaggi di libertà. «Ancora una volta, come era accaduto in galera, vedevo passare davanti ai miei occhi le vittime delle mie malefatte. Ogni volta mi sentivo giudicato, provavo vergogna e insieme il desiderio di abbracciarle e di tentare una sorta di riparazione. In quei mesi è accaduto qualcosa di nuovo, è cresciuta la volontà di essere utile, finalmente mi sentivo in pace. Con molti di loro è nata un’amicizia, dopo qualche mese mi hanno proposto persino di gestire alcuni incontri di autocoscienza in cui potessero condividere i loro trascorsi e cercare strade per uscire dalla dipendenza. Cose da non credere: il Principale aiutava le vittime servendosi del loro carnefice. Non c’è limite alla fantasia di Dio…».

Anche Roberto ha vissuto in carcere il suo personale contrappasso. Trafficante internazionale di stupefacenti ad altissimo livello, un’esistenza con l’unico pensiero di accumulare denaro e di condurre una vita da nababbo, dopo l’arresto nel 1997 viene condannato a 22 anni di carcere quando ne aveva 50. La prima notte passata a Regina Coeli lo costringe a misurarsi con le vittime dei suoi reati. «Nella cella che condividevamo, due giovani in preda a crisi d’astinenza picchiavano sul blindo urlando come dei dannati. “Guarda cosa ho combinato”, mi sono detto. Il male compiuto presentava il conto e mi costringeva a rendermi conto del dolore che avevo provocato. In carcere cominci a pensare, ti guardi dentro e ti chiedi: cosa ho fatto della mia vita? Dovevo uscire dal vicolo cieco in cui mi ero cacciato pensando solo a me stesso. La chiave per farlo? Lo studio». Da giovane aveva già preso il diploma di geometra, ma a scuola era sempre andato senza entusiasmo. Nel carcere di Viterbo dove viene trasferito chiede di iscriversi al liceo classico, il direttore si stupisce di una proposta così impegnativa ma accetta, Roberto diventa un studente modello «perché leggere le opere dei greci e di grandi filosofi è stato come aprire gli occhi sul mondo, imparare a usare la ragione, conoscere se stessi e il valore dell’altro e smettere di guardarsi allo specchio. Mi aspettava una lunga detenzione ma mi sentivo libero dentro e non sopportavo l’idea di passare le giornate sdraiato in cella su una branda fantasticando su un futuro lontanissimo».

Lo studio diventa il trampolino per la sua ripartenza, viene trasferito alle Vallette di Torino dove diventa il primo detenuto a frequentare l’università, si laurea in giurisprudenza e scienze politiche. Nel 2008 comincia a uscire con permessi di studio e di lavoro presso la Caritas che gli offre la possibilità di mettere a frutto la conoscenza delle lingue maturata nella lunga militanza malavitosa in giro per il mondo e di realizzare il desiderio di praticare il bene dopo tanto male seminato con i suoi traffici. Comincia a prendere forma la parabola del suo riscatto, diventa realtà la speranza di una vita pulita. «Quando mi hanno arrestato possedevo un capitale di 23 milioni di dollari, oggi campo con 500 euro al mese: va bene così, ho scoperto il valore dell’essenziale». La moglie vive negli Stati Uniti (dove Roberto aveva una delle sue basi operative), il figlio - ironia della sorte - è un poliziotto della sezione narcotici dell’Fbi. Nel 2013 ha riconquistato la libertà, oggi a ottant’anni suonati ogni mattina è al lavoro negli uffici della Caritas di Torino: cura la rassegna stampa giornaliera e incontra migranti provenienti da ogni latitudine, grazie alle due lauree e alla conoscenza di sette lingue offre i suoi servigi per traduzioni e pratiche burocratiche, collabora con il settimanale diocesano La Voce del tempo, incontra gli studenti nelle scuole e dice ai giovani di non inseguire le sirene del successo a buon mercato e di non prostrarsi al dio denaro. «Dio, quello vero, è venuto a ripescarmi dalla palude in cui ero sprofondato. Non è stato un caso, è stata la Provvidenza che ha trasformato la carcerazione in un’occasione per meditare sulle mie malefatte e per cominciare a cambiare vita. Ora cerco di essere un testimone del bene».

 
 
 

La solitudine dei ragazzi oggi

2025, Caterina Majocchi, Avvenire, 21 gennaio

Educazione. Adolescenti difficili, ecco cosa raccontano a chi si mette accanto a loro

Una counselor racconta la sua esperienza di ascolto dei ragazzi problematici in una scuola superiore dell'hinterland milanese. Tante le esperienze negative vissute a casa, a scuola, con i coetanei

Ansia da ascolto, solitudine, rapporti problematici con le famiglie di origine ma anche con i coetanei, insoddisfazione verso la scuola. Sono i problemi emersi nel corso di un progetto che ho condotto recentemente, in qualità di counselor, presso una scuola superiore di Cinisello Balsamo, alle porte di Milano. Il progetto, chiamato “Restart Yourself”, organizzato da Telefono Donna in collaborazione con la Dirigenza scolastica dell’Istituto e finanziato con i fondi del Pnrr, aveva lo scopo di offrire supporto agli studenti con problematiche scolastiche, personali e famigliari, attraverso tre incontri ciascuno con uno dei professionisti della relazione di aiuto del team di Telefono Donna. Ho così avuto l’occasione di incontrare ragazzi dai quattordici ai diciassette anni e di parlare con loro. Tutti avevano almeno un debito formativo. Quindi il primo argomento che abbiamo affrontato insieme è stato quello della scuola.

“Quasi tutta la classe ha il debito in matematica”, mi ha detto Ilaria, quindicenne. “Il professore non spiega bene. Quando qualche compagno dice di non avere capito, il professore rispiega nello stesso identico modo e quindi non se ne esce e poi… è noioso!”. La ragazza era davvero dispiaciuta e nello stesso tempo arrabbiata. Alcuni dei suoi compagni di classe, che avevo in carico, mi hanno confermato la situazione e molti di loro hanno specificato che l’insegnante incaricato dalla scuola per il recupero del debito era invece in grado di chiarire i punti oscuri del programma e di fugare i loro dubbi. Sono rimasta colpita soprattutto quando mi hanno espresso che questo professore ci teneva che capissero. Questo è un punto cruciale: l’apprendimento è facilitato da un atteggiamento empatico dell’insegnante verso l’allievo. Le emozioni positive di condivisione predispongono al meglio all’incremento delle informazioni e dei concetti. Ciò si rafforza quando non ci si sente costantemente giudicati. Ora, è vero che gli insegnanti di materia sono costretti al giudizio. Peraltro, un giudizio equilibrato è di aiuto allo stesso studente per capire a che punto è. D’altra parte, si può insegnare con una disposizione accogliente e non giudicante, attivando l’intelligenza emotiva, affinché gli studenti si sentano protagonisti del processo di apprendimento e diano il meglio di loro stessi.

Del resto, gli stessi incontri con me, nel ruolo di counselor, hanno dato buoni risultati perché la prima cosa che dicevo ai ragazzi era: “Sono qui per aiutarti e non per giudicarti”. Inoltre, si sentivano rassicurati anche perché precisavo che tutto quello che mi avrebbero detto non sarebbe uscito fuori dalle mura dell’aula, in quanto coperto dal segreto professionale. Ad ogni modo, sono convinta che l’atteggiamento empatico, l’attitudine all’ascolto, il sorriso, insieme all’assenza di giudizio e alla battuta allegra al momento opportuno, siano i migliori strumenti comunicativi in tutte le forme della relazione di aiuto e nel lavoro delle varie figure che si prendono cura dell’altro, a partire dagli insegnanti.

È poi emerso che un’altra nota dolente è quella delle relazioni famigliari. Josè, quattordici anni, vive con la madre e il compagno della madre perché i suoi genitori sono separati. “Quando torno da scuola - mi ha confidato - vorrei tanto trovare la mamma ad accogliermi e mangiare con lei perché le sono molto legato. Invece pranzo da solo perché la mamma lavora. Mangiamo insieme la sera, ma c’è anche il suo compagno e poi parliamo poco perché lei è molto stanca e la tv è accesa”. Ivan, sedici anni, mi dice: “I miei genitori lavorano e io sono a casa da solo nel pomeriggio. Quando rientrano alla sera, la mamma si mette a cucinare e a riordinare e il papà è così stanco che si addormenta sul divano.” Jennifer, diciassette anni, ricorda che da bambina, nelle belle giornate, andava con il papà, che è sempre stato un grande sportivo, a fare lunghi giri in bicicletta, ma ora lui si allena per conto proprio e non la coinvolge più. Certo, sta anche ai ragazzi chiedere di essere coinvolti in attività piacevoli con i genitori, ma è senza dubbio dagli stessi genitori che dovrebbe partire l’iniziativa.

Il senso di solitudine di questi adolescenti è veramente forte. Il dialogo con i genitori è assente in moltissimi casi. Perfino lo scontro generazionale, di grande importanza quando è sano, non c’è o è sbiadito per la mancanza di comunicazione e di condivisione. Non c’è tempo per stare insieme in modo autentico. Ciascuno vive una vita parallela e l’affetto è diluito dalla stanchezza per il lavoro, dalle incombenze della quotidianità e dalla distrazione dei social media. In molte famiglie non si comunica perché ognuno ha in mano il suo smartphone, chiuso nel suo mondo, senza accorgersi che vicino a sé ci sono gli altri membri della famiglia, ci sono i figli.

Questo distacco si accompagna sempre più spesso alla mancanza di contatto fisico. Quanti sono i genitori che abbracciano ancora i figli, anche da adolescenti? Basterebbe anche un braccio attorno alle spalle per rinsaldare il legame tra figli e genitori. Invece prevalgono, nei ragazzi, la solitudine e lo smarrimento. Sopperiscono cercando nei coetanei la famiglia che non c’è, ma è chiaro che non può essere la stessa cosa. Anche in tal caso, le testimonianze parlano chiaro. “Tutti i pomeriggi mi trovo con le mie amiche” – dice Giulia, diciassette anni. “Siamo in tre e ci vediamo sempre, come fossimo sorelle. Parliamo del più e del meno, scherziamo, ridiamo. Mi piace stare con le mie amiche; però, dopo un po’ di tempo, mi estranio dai discorsi, che sono sempre gli stessi e non vedo l’ora di tornare a casa”. Lory, sedici anni: “Tre volte alla settimana vado in palestra a fare pesi con un mio amico. Ci alleniamo insieme per farci i muscoli, diventare sempre più forti e speriamo così di piacere alle ragazze, ma al di fuori dalla palestra non ci sentiamo e non ci vediamo mai”.

Lo spaccato di vita di questi giovani è evidente: si sentono soli anche quando sono in compagnia. Per quanto ci possano essere affinità, la comunicazione non è soddisfacente perché resta a un livello superficiale. Inoltre, la maggior parte delle aggregazioni sociali sono finalizzate. Allora, c’è l’amico della palestra, quello del tennis, quello del corso di inglese e così via. Dove sono finite le aggregazioni sociali naturali e autentiche?

Ad aggravare il fenomeno della solitudine c’è una sempre più diffusa forma di dipendenza dal digitale. I ragazzi - e spesso anche i loro genitori - fanno parte di community virtuali e chattano con individui che non hanno mai incontrato di persona. La comunicazione avviene con le dita su uno schermo luminoso di pochi centimetri quadrati, la testa china, la schiena incurvata, nella più totale noncuranza del mondo circostante e degli esseri che lo abitano. Si sosta in una dimensione artificiale che avvelena le menti, distanzia i corpi, altera le percezioni, limita la crescita che avviene invece nell’espansione del sé nel mondo reale. Da qui l’ansia, che tutti i ragazzi mi hanno detto di provare.

Ciascuno, nel corso dei nostri incontri, ha ammesso di soffrire di un non meglio specificato senso di ansia. Ho cercato, avvalendomi di vari strumenti, in primis della maieutica socratica, di farmi dire da loro stessi quale ne fosse la causa. Li facevo riflettere sul fatto che sapere l’origine di questo stato aiuta a contenerlo, pur sottolineando che non ci può essere una sana adolescenza senza stati di ansia, dovuta alle grandi trasformazioni del corpo e della mente. La loro ansia esulava però da quella propria dell’età; era una manifestazione di un vero e proprio disagio, quel dolore della mente che non si vede, ma è pervasivo e richiede cura. Era l’ansia causata dal senso di solitudine e disorientamento, che urla silenziosamente l’urgenza di ascolto da parte di adulti significativi di riferimento, di supporto e di guida.

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