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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 08/11/2020

La festa di quelli che hanno "fatto goal"

Post n°3445 pubblicato il 08 Novembre 2020 da namy0000
 

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,1-12).

La Chiesa celebra la santità proclamando le Beatitudini, e questa appare impastata di povertà, di lacrime, di fame, di sete e persino di persecuzione. Non sembra ci sia molto di desiderabile.

Questa reazione corrisponde all’idea comune di santità che è un po’ di cartapesta, fatta di cose che sanno di acqua santa, di abnegazione stucchevole, di atteggiamenti fuori dal reale, belli quanto ti pare, ma chi ce la fa?

Bisogna ricordare che prima delle vagonate di santi canonizzati dagli ultimi Papi, che hanno reso la santità più vicina e meno astratta, venivamo da secoli in cui la normale maniera di intendere i santi portava a identificarli in quanto portatori di qualità umane straordinarie: dovevano essere tipi eccezionali nei quali si vedeva sin da piccoli che sarebbero finiti al di qua di un porta-moccoli a fare le statue nelle nicchie delle chiese. La santità, sicuramente ammirabile, era comunque roba poco praticabile a meno di non essere dotati per nascita di fegato impavido e bile sotto controllo.

Eppure il testo che la Chiesa proclama è un martello e ripete sempre la stessa parola, ossessivamente, parola che in genere diventa un rumore di fondo e resta sotto alle altre cose che vengono dette. La parola è: «beati». Nove volte, a inizio di ogni frase. Le regole della comunicazione dicono che la cosa più ripetuta, in genere, se non è la più importante, comunque è centrale.

La parola «beato», al di là delle interessanti etimologie che porta in sé, è potentemente collegata alla felicità, al godimento.

Gesù inizia il più magniloquente dei suoi discorsi, che si dipanerà per ben 3 capitoli del Vangelo di Matteo, ripetendo nove volte l’argomento: la felicità. Non è venuto a portare robe da sacrestia, ma la gioia, l’allegria, l’esultanza.

Un santo è uno che ha fatto goal. È uno che ha trovato la strada dell’allegria. Infatti la Chiesa prima di proclamare un santo lo deve riconoscere beato, persona arrivata all’esultanza.

 

La santità non è una questione di dovere, ma di piacere. Quello vero, quello che non passa, che vale la pena di andarsi a prendere.

Oggi c’è tanta gente in giro che scimmiotta la felicità, che finge la gioia. Un mare di falsa allegria, fatta di sballi, di esagerazioni, di auto-affermazioni, di sconfitte altrui, di trasgressioni. E di vuoto. Perché queste cose bruciano tutto e lasciano nel nulla, e costringono a ripetere, ancor di più, aumentando il rischio, la dose, la spinta. Per arrivare allo svuotamento totale.

A questa falsa gioia si oppone la mediocrità del profilo basso, della vita fatta di sicurezze e comodità, e tanto grigiore.

La santità è colore, è passione, è grandezza, è bellezza. È quello che desiderano un ragazzo e una ragazza quando si sposano, è quello che desidera un bambino quando respira a pieni polmoni le sue aspirazioni sognanti, e speriamo che non le perda mai. È andare diritti al bersaglio e arrivare alla meta della vita: aver imparato ad Amare e farlo, tanto.

Felicità vera, quella che ha una sola sorgente: l’Amore vero (Fabio Rosini, FC n. 44 del 1 novembre 2020).

 
 
 

Un mondo migliore

Post n°3444 pubblicato il 08 Novembre 2020 da namy0000
 

Il virus ha fatto irrompere la morte, in questo momento storico. Eravamo ingaggiati in una vita attiva, avevamo dimenticato che in fondo poi si muore. Altre epoche avevano dimestichezza col morire, perché forse era più facile morire, e non parlo solo dei vari libri di preparazione al moriente (il più noto Libro tibetano dei morti, ad esempio, che il mio libro in qualche modo evoca), nel Medioevo c’era tutta una letteratura che ricordava il memento mori, il vado mori, ecc. Da qualche decennio a questa parte, invece, ci eravamo convinti che la medicina fosse magnifica e progressiva, quando all’improvviso ci ha mostrato la sua debolezza.

 

L’uomo moderno, che già non aveva più le religioni, inefficaci ormai a rassicurarlo rispetto all’esistenza di una vita dopo la morte, adesso sta perdendo fiducia anche nei riguardi della religione del nostro tempo, la medicina.
La categoria medica, ma questo è noto, è poco preparata a comunicare la morte, un momento che di solito non viene gestito al meglio. Questa negazione del morire si manifesta anche attraverso una sorta di ipocondria che molti medici presentano. Ipocondria è timore del nosos (malattia), come preludio al thanatos (morte). Non è un caso che tanti virologi mediatici appaiano spaventati: allora non stupiamoci delle decisioni assunte da chi governa, su loro suggestione.

 

Il contenuto dei diversi dpcm, il mantra dei dati hanno avuto questo effetto: scaricare sulle persone la responsabilità del contagio. Se il contagio accade è perché ho fatto la cena in casa, per la movida, perché non ho indossato la mascherina anche quando ero da solo. No: il contagio si è verificato soprattutto in ambienti sanitari. I primi a contagiarsi sono stati, a marzo, medici e infermieri che (senza dispositivi di protezione, perché un piano pandemico aggiornato al 2006 ha fatto sì che per qualche settimana gli operatori sanitari, me compreso, abbiano navigato a vista, senza protezioni) si sono ammalati (e alcuni sono morti), uscendo di scena e andando a indebolire ancora di più la già fragile assistenza territoriale. Poi, il contagio è scoppiato nelle Rsa, nelle cliniche, nelle case di cura, negli ospedali.

 

Nei sei mesi tra la prima e la seconda ondata, ci sarebbe stato tutto il tempo per invertire la polarità dell’organizzazione del sistema sanitario nazionale. Ovvero depotenziare l’ospedale e disseminare nel territorio le cosiddette USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), mini equipe agili formate da medico e infermiere che andassero a casa a fare diagnosi (tamponi), triage (decidere chi ricoverare in ospedale e chi no) e iniziare terapie (eparina, cortisone eccetera). In modo tale da non determinare le selvagge code ai drive in e la saturazione di pronto soccorso e ospedali. Si sarebbe limitato così proprio il contagio domestico e familiare, che si verifica perché la medicina non sa uscire dall’ospedale, il suo tempio malato. Ma questo potenziamento della medicina extra-ospedaliera non è avvenuto, allora è stato più facile colpevolizzare le persone, arrivando a suggerire la delazione del vicino trasgressore. Si è compiuta un’operazione mediatica di trasferimento delle responsabilità, da chi governa a chi è governato.

 

I coreani già parlano di corona blue, una depressione, più che ansia, legata alla permanenza forzata tra le mura domestiche. Prima (cito il filosofo Byung-Chul Han) la società moderna era una società affaticata da un imperativo di prestazione, da un’isteria di lavoro e iperproduzione, e questa stanchezza veniva dagli psichiatri rinominata depressione (ecco il motivo di 400 milioni di depressi nel mondo, la gran parte erano stanchi di lavoro, potremmo dire, con un’iperbole) e la cura era un doping psichico con antidepressivi (legali) o droghe (illegali). Oggi lo stop forzato, questa sorta di trattamento sanitario obbligatorio, ha dato luogo al passaggio da una vita attiva a una vita contemplativa. Ma si tratta di una contemplazione non desiderata perché imposta, da qui una nuova forma di depressione. Una depressione da istituzionalizzazione potremmo dire. Ervin Goffman in Asylums diceva che le istituzioni totali sono quei luoghi (manicomi, carceri, conventi, caserme) dove si svolge ogni aspetto della vita: lavoro, svago, sonno, sesso, cibo. Le persone in lockdown non si sono trovate (e non si troveranno) a fare tutto in casa? Smart-working, didattica a distanza, guardare un film, ordinare un libro o il cibo con delivery, sesso virtuale, tra poco avremo perfino telemedicina. È un bene, dunque, che ci siano ansia o depressione, da non sedare subito con psicofarmaci: significa che il processo di trasformazione in electric sheep non si è ancora compiuto.

 

Io però sono ottimista e dico che questo virus, e la noia da confinamento che per un anno ne è derivata è, per dirla con Benjamin, un “uccello incantato che cova le uova dell’esperienza”. Abbiamo fermato la “pura frenesia”, ci siamo fermati nel nido domestico a covare le uova dell’esperienza. Ovvero: la possibilità di pensare a ciò che stiamo diventando. Ci siamo separati dalla natura, come fosse altro da noi. La natura come oggetto da cui estrarre materia, profitto, all’infinito. Distruzione di animali (ora 17 milioni di visoni, dite che non è un olocausto?) e di piante, di biodiversità. Emergenza climatica che sembra non interessarci, presi dal turbine della vita activa. Ora possiamo riflettere sul nostro legame con la natura, capire che siamo parte di un bioma, e che il viroma (ovvero i virus del nostro corpo) interagiscono con il microbiota del nostro intestino e con il nostro genoma. Siamo incredibilmente connessi. È da questo sconfinamento, da questa nostra antropica invasione degli habitat di altre specie, che scaturisce il virus.
Ora siamo corpi. Corpi confinati in casa. Eravamo i padroni della terra, ora siamo tornati a essere abitanti impauriti nelle caverne.

 

Se la pandemia è un test, tra il modello biopolitico europeo basato sul controllo dei corpi (confinamento in casa, sorveglianza militare delle strade) e il modello psicopolitico asiatico basato sul controllo delle menti (telecamere, riconoscimento facciale, app, rating individuale, sistema di credito sociale), il secondo ha vinto nettamente. E dunque si prospetta una “cinesizzazione” dell’Occidente. Una torsione delle nostre democrazie a favore di un modello tecno-totalitario. A quel punto il mondo alternativo, se ci sarà, arriverà solo dopo una guerra civile. Neoliberisti da una parte, suprematisti dall’altra, in mezzo gli altri, che staranno a guardare. E quando tutto sarà finito, ricostruiranno un mondo migliore. L’avevo detto che sono ottimista. (Piero Cipriano, psichiatra, intervistato da HuffPost, 7 novembre 2020)

 
 
 

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