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Messaggi del 13/10/2022

Luigi che diceva

Post n°3786 pubblicato il 13 Ottobre 2022 da namy0000
 

2022, Scarp de’ tenis Agosto

Luigi che diceva

Si chiamava Luigi T. Era nato nel 1889, ne aveva 100 quando è volato via. Non importa il cognome, importa altro. Qualcosa che nel vuoto doppio e vasto di agosto compare e ristagna come una carta velina sospesa nell’afa. Immagini, una sequenza trasparente che quel Luigi, padre e poi nonno mio, tuo, nostro, diffuse a suo tempo. L’abito scuro, sempre, camicia bianca, cravatta stretta e nera per una sorta di divisa dettata da un’abitudine antica e ordinata. Teneva, a lato del lavandino, nel bagno di casa, una striscia di cuoio. Stava lì per affilare a mano il rasoio, la lama mossa con una disinvoltura inarrivabile salvo cicatrici, per farsi la barba, ore 7 precise, ogni mattina. Dare del lei, a tutti, mi raccomando. Chiedere permesso, ringraziare. Cedere il posto. Ripeteva: «Cosa siamo qui a fare?». Per badare agli altri, si capisce. A chi non si accorge di poter fare. A chi non sa più che cosa fare. A chi fare non può. Con alcuni amici, poco dopo la fine della Prima Guerra mondiale, anno 1919, aveva fondato una banca. Una piccola banca messa su con i risparmi di quel gruppo minuscolo di persone. Ma come? Possibile? Spiegava che le banche, allora, quelle vere, pretendevano una quantità di informazioni prima di concedere prestiti urgentissimi e indispensabili a reduci nei guai. Contadini, artigiani, persone che avevano bisogno di una piccola spinta per ripartire. Tempi di risposta? Troppo lunghi. Con la terra, le bestie, i raccolti che andavano alla malora. Per questo, la “banchetta” come venne bollata, non senza sfottò. Un servizio. Diceva: «Se possiamo anticipare un po’ di denaro, perché no? La gente è perbene. Ogni prestito verrà restituito». Ne era certo, nemmeno un dubbio per lui che un giorno aveva perso il treno dovendo riportare in ufficio la matita messa in tasca per sbaglio prima di uscire. Infatti. In molti ottennero, ripartirono. Tutti restituirono. «Cosa siamo qui a fare?».

È passato tanto tempo, forse troppo. Eppure quel viaggio suo, al tramonto, mentre incominciava il nostro, continua ad offrire una memoria fatta di gesti semplici ma accurati. Cura è la parola più adatta qui. Cura per gli abiti, da far durare, da usare in relazione al dove e al quando. Cura per gli oggetti, pochi, utili tutti. La striscia di cuoio, il rasoio, l’abito per i giorni di festa, uno solo, la sobrietà come regola, l’educazione come sistema di regole non discutibile. Le stagioni osservate e rispettate per ciò che negano e danno, il rispetto che non flette indipendentemente dal contesto, dall’interlocutore. È roba vecchia, forse. Eppure, tra i nostri capricci, schiamazzi e vizi, modernissima. Indica un decalogo ancora possibile e, nel comtempo, una specie di conforto. Il poco come un tutto. La ricchezza come una risorsa interiore, gli oggetti materiali visti come strumenti solo necessari e non altro perché nessun bene materiale aumenta la caratura, la felicità, ogni intima soddisfazione.

Non si tratta di semplice malinconia da colmo estivo. E non pare un caso star qui a raccontarci ancora oggi di Luigi T., classe 1889. C’è qualcosa di utile, persino indispensabile che nel suo modo e nel suo tempo stava. Addirittura, per qualche forma, recuperabile. È questione di cura, appunto. Persino di salvezza. Nostra e di ciò che attorno a noi sta. Volendo, basta qualche piccolo sforzo, un ripristino minimo. «Giorgino, cosa siamo qui a fare?».

 
 
 

Manipolazioni ed errori

2022, Avvenire, 12 ottobre

Dove ci porta il gioco assurdo delle manipolazioni e degli errori

Caro direttore,
come ben sai, questa guerra atroce non si sta combattendo solo sulle terre d’Ucraina. La rete ormai è diventata un campo di battaglia, dove non volano missili o proiettili, ma notizie false, opinioni distorte, fino agli insulti più volgari e umilianti e minacce che molto spesso si allargano anche alle famiglie dei diretti interessati. Ad amplificare il tutto, c’è il fatto che Internet è il luogo dell’anonimato per eccellenza e che troppo spesso i social network, per come vengono gestiti, incoraggiano queste manifestazioni, con meccanismi di controllo insufficienti. Dramma nel dramma, da anni la Rete è diventata il terreno prediletto di una guerra parallela, quella della disinformazione. Una strategia portata avanti attraverso fake news, tentativi di screditare l’avversario, violenza verbale gratuita. Molto spesso si organizza una vera e propria macchina del fango. Si parte da un tweet estrapolandolo dal suo contesto, lo si commenta in maniera capziosa, senza aver mai letto o sapere nulla di chi lo ha scritto. Si tirano fuori contributi che risalgono a molti anni prima, ignorando il fatto che chi li ha scritti ha ammesso di essere stato, allora, a sua volta vittima di disinformazione. Oppure si crea un contributo falso ex novo, facendolo ritwittare da centinaia di utenti nel giro di pochi secondi, perché diventi virale. A volte si tratta di ”semplici polemisti”, che fanno dell’attacco personale e della creazione di macchine del fango un’abitudine regolare. Non si rendono conto di quanto questo sia pericoloso per tutti. Perché a fianco di queste persone ”ingenue e spontanee” ci sono dei veri professionisti della disinformazione, vere e proprie “brigate del web”, spesso pagate per diffondere odio e vedute distorte e che fanno delle polemiche che nascono sulla rete, un terreno fertile in cui proliferare. Questo fenomeno, ha un nome ben preciso: è una parte della guerra non lineare. L’ho studiata per molto tempo, nelle ultime 72 ore l’ho provata sulla mia pelle. Un mio tweet, tra i tanti, forse percepito come “di parte”, è stato rilanciato con malizia. E poi altri sono stati creati del tutto falsi per screditarmi. Coinvolgendo, ed è la cosa che più mi dispiace, anche “Avvenire”, al quale collaboro da anni. Chi è un professionista dell'informazione deve sicuramente usare i social nel modo più saggio possibile, tenendo conto delle sensibilità di tutti. Ma quando le parti sono fortemente polarizzate ci sarà sempre qualcuno pronto a forzare le interpretazioni e a spargere veleni. Anche questi sono i frutti della guerra.

Marta Ottaviani

Sai che stimo molto il tuo lavoro, cara Marta, e dunque prendo atto di ciò che mi scrivi. Da tempo non mi stupisco più di manipolazioni ed errori, ma conservo intatta la capacità di giudizio e anche d’indignazione mentre sento il dovere di non commettere mai manipolazioni e di evitare per quanto umanamente possibile gli errori. Detto questo, noi cronisti non metteremo mai abbastanza cura nei nostri articoli e nel dibattito pubblico, e non per prudenza fine a sé stessa, ma per rispetto degli interlocutori (chi ci legge, ci vede e ci ascolta) e del giornale per cui scriviamo. È bene, però, che ci si renda conto che questo dovere riguarda ormai proprio tutti, chiunque impugni e usi uno smartphone, e di questi tempi più che mai come in battaglia…

 
 
 

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