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Messaggi di Aprile 2021

Siti ancora da bonificareinquinamento

Post n°3586 pubblicato il 28 Aprile 2021 da namy0000
 

2021, FC n. 17 del 25 aprile.

Difendiamo l’Italia dalle “terre dei fuochi”

L’inquinamento e il degrado sfregiano l’intero Paese: sono 42 i siti ancora da bonificare, da Trento a Gela

«Padre sono già due anni», mi dice Lello, il papà di Simona. Che tenerezza. Il tempo vola. Aveva 28 anni quando morì, questa ragazza prossima alla laurea. Viveva nella famigerata “terra dei fuochi”, striscia fortemente inquinata, tra Napoli e Caserta. I morti per cancro e leucemie non si contano. Quanta sofferenza, quante bugie, quanta ipocrisia, quanta reticenza. La nobile battaglia per la salvaguardia dell’ambiente si è rivelata più subdola e pesante di quanto si pensava. Gli interessi economici sono enormi. «A munnezza è oro», farfugliò un camorrista intercettato. A tal punto che, all’inizio, nemmeno i malavitosi, da sempre appollaiati sulle spalle della povera gente, ne sapevano niente. Me lo confidò l’ex cassiere del clan dei Casalesi, Carmine Schiavone, quando lo incontrai in una località segreta. Rimanemmo insieme per un pomeriggio intero. Un incubo. «Nemmeno sapevamo che con i rifiuti si potesse guadagnare tanto. Furono “loro” a cercare noi, non noi a cercare “loro”».

 

Da inorridire. “Loro” erano gli industriali disonesti del centro e del nord Italia, che avevano trovato nella sanguinaria camorra campana un alleato per i loro sporchi affari. “Loro” spiegarono per filo e per segno quanto fosse più comodo e redditizio interessarsi di rifiuti anziché di droga. «Si guadagna di più e si rischia niente», dissero. Certo, perché l’Italia non disponeva, e tanti fecero di tutto per affossarla, di una legge per i reati ambientali. Sicché gli assassini di terre e persone ci ridevano addosso.

 

La Campania, ancora oggi, non dispone di impianti per smaltire rifiuti industriali in modo legale e trasparente. E questa mancanza, per i disonesti inquinatori, è una vera manna. Ogni giorno almeno 6.000 tonnellate di scarti industriali prodotte in Campania dalle tante fabbriche di pellami, abbigliamento, eccetera, sono bruciate o smaltite camuffandole tra i rifiuti delle case, interrandole o sversandole nelle fogne, nei fiumi e in mare, se sono veleni liquidi. Fu dalla sofferenza dei cittadini della nostra terra che venne la spinta a tirar fuori un vecchio disegno di legge che da oltre 20 anni giaceva vergognosamente in Parlamento.

 

Se oggi l’Italia ha una legge sui reati ambientali lo dobbiamo soprattutto a loro. Lo vogliamo ricordare, non per orgoglio e vanagloria, stupidaggini che ci mortificano, ma per ringraziare il nostro popolo che seppe scendere per le strade chiedendo a parroci, sindaci e vescovi di non essere lasciati soli. La Chiesa campana accolse l’invito. E papa Francesco ci regalò quel gioiello che tutti conosciamo: l’enciclica Laudato si’. Non tutti furono in grado di comprendere la portata profetica. Questo equivoco, misto a un pizzico di dabbenaggine e di cattiveria, sta a dimostrare quanta strada occorre ancora fare perché si comprenda che la custodia dell’ambiente è un vero atto di amore verso tutti, credenti e non credenti, bianchi e neri, ricchi e poveri.

 

Al termine di un convegno virtuale svoltosi il 17 aprile, con base ad Acerra, la Chiesa italiana ha voluto rilanciare, promuovendo un patto per tutelare l’ambiente e la vita nelle aree sfregiate.  Nel nostro Paese ben 78 diocesi ospitano nel territorio uno dei 42 siti fortemente inquinati. Un numero enorme. Posti che pur non avendo la stessa genesi e gli stessi problemi provocano, però, tutti le stesse conseguenze: malattie e morte. Il dramma dei tarantini (ex Ilva) è diverso da quello dei trentini insidiati dal piombo, dei veneti di Porto Marghera, dei piemontesi delle ex cave di amianto, dei calabresi del Crotonese o dei siciliani di Gela e Priolo. Anche per l’ambiente vale il comando di Gesù: ut unum sint. Insieme. Dobbiamo lavorare insieme. Forza dunque. Siamo sulla buona strada. Occorrono persone serie, preparate, oneste, trasparenti. Che scuotano «le mani per non accettare regali» e sappiano farsi tutto a tutti.

 
 
 

Grazie

Post n°3585 pubblicato il 26 Aprile 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 24 aprile.

Le lotte di resistenza e di liberazione da un grande male, da un’iniquità, da un’insidia terribile si fanno perché sono giuste e perché sono per tutti. Anche per quelli che al male non credono, di resistenza non vogliono sentir parlare e la liberazione l’intendono soltanto a modo loro.

La Resistenza al nazifascismo è stata fatta per tutti, anche per quelli che combattevano dalla nera parte sbagliata. E la Liberazione è maturata per tutti. È cominciata il 25 aprile 1945 e si è completata tra il 2 e il 22 giugno 1946, con la nascita della Repubblica e con la pacificante amnistia che porta il nome di Togliatti e il sigillo di De Gasperi. Canti e bandiere al vento, armi poco a poco riposte, errori e orrori smessi e superati: una pietra sulla guerra e sulla guerra civile, non sulla memoria necessaria, non sui torti e sulle ragioni. Molti hanno avuto torti, ma quelli che grazie a Dio hanno vinto, i partigiani e le partigiane, i soldati del ricostituito Esercito italiano, avevano infinitamente più ragione. E continuano a meritare il nostro grazie e sono ancora oggi il nostro orgoglio e la linfa della democrazia repubblicana.

Bisogna ripeterlo, bisogna sapercelo dire e ridire, mentre gli anni passano, gli eventi si fanno più lontani e diminuiscono i protagonisti e testimoni diretti di quel primo "25 aprile" e del coraggio, del dolore e del sangue che ci vollero per conquistarlo insieme: credenti e no, politicamente bianchi, rossi, verdi e azzurri. Bisogna custodire e rinnovare il senso della Resistenza e della Liberazione. E tanto più ora, in un tempo in cui, a causa di una pandemia tutt’altro che finita, la minaccia al bene di tutti non è solo e gravemente sanitaria ed economica. In questione c’è ancora e sempre la nostra vera libertà e la nostra intera umanità, e anche questa è cosa che riguarda tutti, pur se la solidarietà a qualcuno sembra superflua e addirittura dannosa. In questione c’è la resistenza a una visione per cui se sei giudicato "irrilevante" diventi invisibile o visibile solo attraverso caricature di comodo. In questione, in definitiva, c’è il concreto valore della vita e della morte.

I partigiani di ieri presero partito per la vita, contro un’ideologia di morte che faceva della distruzione dell’altro l’idea-guida di un vagheggiato impero millenario. I resistenti di oggi devono farlo opponendosi a chi torna a prendere partito per la morte davanti all’agonia degli "irrilevanti". C’è da resistere nuovi torti senza nessuna ragione. Di chi non vede i "clandestini" quando annegano. Di chi non si preoccupa dei vecchi e dei fragili che a centinaia ogni giorno anche in Italia continuano a soffocare a causa del Covid (perché il Covid e la lotta al Covid sarebbero un "complotto"). Di chi considera la scuola in sicurezza dei nostri ragazzi e ragazze un lusso che non possiamo permetterci perché le cose "serie" e prioritarie sono ben altre. E, di nuovo, la Resistenza va fatta per tutti, anche per quelli che non ci credono.

 
 
 

Informazione e disinformazione

Post n°3584 pubblicato il 24 Aprile 2021 da namy0000
 

2021, Giornalettismo 24 aprile

“Disinformazione e fake news durante la pandemia: il ruolo delle agenzie di comunicazione”. «Con il mondo del web e con Internet tutto ciò che da noi è considerato fake news, spesso diventa credibile. È un circuito vizioso che si autoalimenta e aggiunge informazioni che sembrano essere a conferma, nonostante non si sappia dove nascano, chi l’abbia raccolte e rilanciate», ha detto ancora il sottosegretario. È quanto ha detto il sottosegretario alla Presidenza con delega all’editoria, Rocco Giuseppe Moles.

Il ruolo delle piattaforme social, ancor più con l’emergenza pandemica, «pone una serie di questioni giuridiche, tecnologiche e sociali, oltre che di rischi per tutte le democrazie. È di iniziativa parlamentare la creazione di una commissione di inchiesta sulle fake news. Io però sostengo la necessità, soprattutto oggi, che ci sia da parte di tutti gli operatori del settore, nessuno escluso, una forma di autoregolamentazione. Che può avvenire grazie alla professionalità dei singoli e che a sua volta passa anche attraverso una sorta di incentivo a questo tipo di formazione e di professionalità. Il ruolo dei comunicatori anche in questo caso è fondamentale per garantire il diritto dei cittadini a essere correttamente informati, in modo chiaro e autorevole, direi quasi certificato».

Quanto all’Italia nel periodo della pandemia, ha rilanciato Moles, «la predominanza della comunicazione, spesso comunicazione politica e propagandistica più che istituzionale, ha determinato per lungo periodo l’assoluta e totale incertezza dei cittadini e dall’incertezza si è passati allo sgomento. Anche io da cittadino ho subito questa confusione. Lo dico brutalmente: non si sapeva più a chi credere». Oggi, ha concluso, «un primo passo avanti si è fatto con il nuovo tipo di comunicazione attuata da questo Governo. Siamo passati dalle conferenze stampa via social in orari prestabiliti, senza confronto, a un’informazione più chiara e concreta. In molti consigliano al presidente Draghi di fare un pò più di comunicazione e quindi di informazione. Credo che pian piano, a prescindere dalla natura caratteriale del presidente Draghi, si andrà verso questa direzione».

 
 
 

Il virus va cancellato

2021, Walter Ricciardi, Avvenire 22 aprile

Covid. Il virus va solo cancellato. Gli errori si pagano cari, evitiamoli

È passato più di un anno ma pare che la lezione che ci ha dato il Covid non sia servita. Pronti di nuovo a commettere gli stessi errori fatti la scorsa estate. Anzi, l’anno scorso avevamo l’erronea illusione di aver cancellato il Sars-CoV-2 con una coraggiosa serie di interventi che nessuno al mondo aveva mai attuato prima e in effetti avevamo riportato la circolazione del virus ai minimi termini. Sarebbe bastato perseverare per un altro mese e rafforzare le attività di testing e tracciamento che invece abbiamo rapidamente perso con la seconda ondata di ottobre e la terza di febbraio quando, ancora una volta, non abbiamo avuto il coraggio di fare lockdown brevi e mirati per arginare il contagio che da quel momento non ci ha abbandonato più.

Mancanza di coesione e ignoranza dell’evidenza scientifica sono gli elementi che stanno spalancando le porte a un’ulteriore ondata epidemica. Gli stessi mali che hanno colpito la stragrande maggioranza dei Paesi europei e, da ultimo, con effetti disastrosi, l’India.

Che cosa hanno in comune Paesi come la Nuova Zelanda e Taiwan, il Ruanda e l’Islanda, l’Australia e il Vietnam, Cipro e la Thailandia? Poco o niente dal punto di vista geografico, culturale, economico e sociale e però sono tutti Paesi in cui la vita oggi scorre più o meno normalmente grazie alla scelta di non convivere con il virus, ma di arrestarlo e, se possibile, eliminarlo. Hanno fatto scelte coraggiose: lockdown mirati e tempestivi, numerosi test e tracciamento inesorabile, limitazione della mobilità, rafforzamento dei servizi sanitari. E hanno bloccato il virus prima ancora di avviare la vaccinazione di massa.

Cosa hanno in comune l’India e l’Italia, la Germania e gli Stati Uniti, la Francia e i Paesi est-europei? La scelta di pensare di poter convivere con il virus e/o di pensare che una singola arma, la campagna vaccinale di massa, possa riportare l’epidemia a livelli sopportabili. Non sarà così: solo motivando l’intero Paese ad azioni coraggiose e non cedendo a stimoli divisivi e populistici che fanno leva su una popolazione provata tutta psicologicamente e in parte anche economicamente si potrà affrontare una battaglia lunga e faticosa, in cui ogni deroga all’evidenza scientifica e alla crudezza dei dati potrebbe portare a bilanci drammatici in termini di sofferenza e morte.

I sociologi conosco bene i cedimenti che molti governi stanno praticando: "imperativo democratico", così definiscono l’azione di un governo che fa cose sbagliate perché lo chiedono gruppi importanti di cittadini. È quello che ha fatto il governo indiano cedendo alle pressioni degli induisti di non rimandare la cerimonia di purificazione che si svolge periodicamente, consentendo loro di ammassarsi in prossimità di grandi corsi d’acqua. Il risultato, ineluttabile, è stata un’esplosione di casi e di morti, cadaveri ammassati in strada, ospedali al collasso e la possibilità di una nuova variante, forse più contagiosa e aggressiva di quelle fin qui conosciute che sta provocando grandi preoccupazioni in tutto il mondo.

La catastrofe ha portato fatalmente a un lockdown di sei giorni per tentare di fermare la curva del contagio. Naturalmente non sarà sufficiente, ma il primo ministro Arvind Kejriwal, anche di fronte alla tragedia epocale ha ritenuto di doversi giustificare: «Sono sempre stato contrario alle chiusure, ma questo ci aiuterà ad aumentare il numero di letti d’ospedale disponibili, è stata una decisione difficile da prendere, ma non avevamo altra scelta». E questo di fronte a oltre 300mila nuove infezioni ogni giorno, e a migliaia di morti quotidiane.

A preoccupare è soprattutto la pressione sugli ospedali. Diversi Stati della Federazione indiana hanno segnalato la saturazione dei reparti di terapia intensiva.

I social media sono pieni di video di funerali in cimiteri affollati, lunghe file di ambulanze fuori agli ospedali che trasportano pazienti ansimanti, obitori pieni di morti, carenza di ossigeno e farmaci, pazienti, a volte anche in due in un letto, nei corridoi e nelle sale di attesa dei nosocomi.

Il governo indiano ha semplicemente ignorato gli avvertimenti della comunità scientifica. Solo all’inizio di marzo, il ministro della Salute indiano Harsh Vardhan, un medico, aveva dichiarato che il Paese era «alla fine» della pandemia dopo che all’inizio dell’anno si era verificata una discesa significativa della curva epidemiologica. K. Srinath Reddy, presidente della Public Health Foundation of India aveva avvertito: «Tutti volevano tornare al lavoro. Alcuni pensavano che avessimo raggiunto l’immunità di gregge e questa narrazione è stata utilizzata da molti, mentre le poche voci che invitavano alla cautela non sono state ascoltate».

In questo contesto gran parte dell’Europa sta seguendo una strategia di convivenza mentre dovrebbe perseguire una strategia di eliminazione del Covid-19, e l’Italia si sta muovendo in analogia a quanto sottovalutato dal governo indiano. Pressato da forze politiche al suo interno e da settori della società esasperati dalle perdite economiche il governo italiano sta cioè riaprendo pezzi significativi di attività in presenza di un’ampia circolazione del virus, una forte pressione sui servizi sanitari, un sistema sanitario sofferente per carenza di personale, un personale mediamente anziano e provato fisicamente e psicologicamente e coperture vaccinali non ancora soddisfacenti.

Il governo attuale è nato sull’idea di coesione nazionale per affrontare la pandemia. Il successo della sua azione sarà possibile solo se, appunto, sarà coeso e se baserà le sue decisioni, anche impopolari, sull’evidenza scientifica. Ogni deroga all’una o all’altra sarà causa di infelicità ravvicinate. Facciamo in modo che non sia così.

 
 
 

Come rispondiamo?

2021, Avvenire 22 aprile

La denuncia. Regeni: «Dettagli macabri e nomi di testi: che razza di giornalismo è?»

J'accuse dei genitori di Giulio dopo le ultime rivelazioni sulla sua morte in Egitto

«Amarezza e sconvolgimento». È quello che esprimono Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, il ricercatore sequestrato, torturato e ucciso nel 2016 in Egitto. Lo fanno con una dignità che tutti dovremmo ammirare, ma anche con la forza di chi, malgrado il dolore, guarda dritto negli occhi e dice cose chiare. Questa volta non denunciano i torturatori o chi li protegge, ma alcuni cronisti, anzi «un modo di fare giornalismo spregiudicato, morboso e assolutamente irrispettoso e lesivo del lavoro che abbiamo fatto», accusa papà Regeni in un breve video condiviso dal loro avvocato Alessandra Ballerini. Un video che dovrebbe imbarazzare noi giornalisti o almeno far discutere. E invece nulla. Pochissime condivisioni e nessuna testata che oggi, online, lo abbia ripreso o citato.

Eppure le pacate ma forti accuse di mamma e papà Regeni sono precise, circostanziate.

Denunciano la pubblicazione di «atti d’indagine il cui contenuto è delicatissimo» e che «rischia di mettere a repentaglio testimoni, consulenti e avvocati, oltre ad intralciare il nostro percorso per arrivare alla verità».

Non solo. Paola Regeni, con voce chiara ma immaginiamo con quale sofferenza, afferma che «non è certo continuando questo stillicidio, raccontando ogni giorno in modo sempre più macabro tutte le torture che Giulio ha patito, che ci aiutate e ci state vicini». Poi aggiunge quasi una lezione di deontologia giornalistica.

«Nel momento in cui i genitori vi dicono che hanno visto sul volto del loro figlio tutto il male del mondo e nel momento in cui la procura vi ha detto e ha scritto che Giulio è stato torturato per 8-9 giorni, quali particolari, quali immagini servono in più?».

Nei giorni scorsi alcune importanti testate hanno, infatti, pubblicato macabri particolari delle torture, citando i testimoni che li hanno riferiti, coi nomi di copertura assegnati dai magistrati italiani, ma purtroppo ugualmente e pericolosamente identificabili. E questo nel pieno delle fasi più delicate e decisive dell’inchiesta. Eppure proprio i genitori di Giulio, appena quattro mesi fa, ospiti di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa" su Rai3, avevano fatto un accorato appello proprio ai giornalisti. «Rispettate noi e nostro figlio, non continuare a saccheggiare i documenti. Continuate a sostenerci, ma vi chiediamo di smettere di diffondere dettagli sulle torture subite da nostro figlio durante la prigionia». Non sono stati ascoltati.

Ancora una volta siamo chiamati alla responsabilità del "cosa" e del "come" pubblicare le notizie. Una vecchia questione. Tanti anni fa, partecipando a un dibattito con alcuni colleghi, sentiì un grande cronista di giudiziaria affermare con convinzione «io pubblico tutto quello che mi arriva». La risposta gliela dà papà Regeni. «È gravissimo che questi atti siano stati consegnati a giornalisti e che i giornalisti li abbiano pubblicati, perché molti altri giornalisti, che pure hanno questi atti, hanno deciso come scelta etica, morale e deontologicamente corretta di non pubblicarli». È una scelta che anche qui ad "Avvenire" abbiamo fatto, scegliendo di non pubblicare ciò che può offendere, provocare ulteriore dolore o vanificare il lavoro degli inquirenti.

Dobbiamo tenere a mente, come scrisse papa Francesco nel 2018, in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni, che il giornalista «ha il compito, nella frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop, di ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone. Informare è formare, è avere a che fare con la vita delle persone». Niente di più lontano dai «macabri particolari» o dalla rivelazione delle testimonianze. Lo dicono con chiarezza mamma e papà Regeni, invitando i giornalisti «a fare le indagini e non a disvelare e pubblicare le indagini fatte da altri».

Come rispondiamo? La libertà di stampa è preziosa, per questo non va usata in modo «spregiudicato, morboso e assolutamente irrispettoso e lesivo». Grazie Paola e Claudio Regeni per averlo detto come questa chiarezza e questa dolorosa forza.

 
 
 

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