L'uomo dei difetti

ZAGARA. Sulle LABBRA. Nel PETTO. PARTE I


     Aveva smesso di piovere già da un pezzo.Sulle mani, intirizzite, il gelo apriva scaglie vive, e poi vermiglie, me le seccava. Alla schiena era andata pure peggio. Il mantello, greve, nero, e fradicio mi lambiva la spina dorsale con la passione d'una carezza di ghiaccio che graffiante mi rizzava dritto ad ogni impronta dell'incerto mio incedere.     Alle narici, del solo miele, l'effluvio. No, non profumava neanche alla lontana di miele d'acacia. Quello lo conoscevo bene. Di agrumi. Folgorante, mi sovvenne.    <<Di Zagara.>>, il vento allorché dotto, da dietro le spalle, mi soffiò puntuale.    I Viandanti si sa, fanno razza a sé. Spesso eccentrici. Saggi, talvolta. Conoscono i venti, e i venti sanno come riconoscere loro. Si racconta che abbiano due soli compagni.Il bastone, per saggiare. Il vento, per sapere dove andare.E anch'io avevo i miei. E l'altro, presto mi resi conto, non era il bastone.    Due uomini che provenivano da direzioni opposte mi urtarono le spalle. Uno vestiva il solo bianco. L'altro, il solo nero. Eleganti, entrambi. Mai veduti prima.Con un cenno del capo abbozzarono un saluto. Io feci lo stesso.    <<Che buon profumo di arabica!>>, disse l'uomo vestito di bianco.    <<Arabica ? … A me pare pollo fritto!>>, ribatté l'uomo vestito di nero.    L'uomo vestito di bianco invertì la sua direzione. Li osservai discutere sulla qualità dei rispettivi olfatti fino a quando, voltato l'angolo, le tenebre inghiottirono figure e suoni.Pensai fossero due pazzi. Pollo fritto ? Arabica ?Era miele! Palesemente, miele! E intenso, da morire!     Intorno a me solo terra. Tanta, terra. Bagnata.Mi venne da pensare alle mie scarpe. Chinai il capo. Poi mi voltai, esterrefatto. Tornai diritto. Non avevo scarpe. Non avevo più le mie scarpe. I piedi erano nudi, e terra aggrappata fin quasi alle caviglie. Tentai di scrollarla, una, due volte. Poi una terza. Niente, non andava via.    <<Mai, andrà più via. Così è scritto.>>, lo stesso vento di prima, sempre da dietro, mi mormorava, secco.Impregnato, inspiegabilmente fiero, dal solo olfatto scortato, calpestai il confine di quella terra che caliginosa, sentivo non essermi sconosciuta.Una frase che non sapevo come giustificare, frastornante, mi scorreva indolente nella testa, da tempia a tempia, come in una proiezione al cinematografo. E nel fragore, mi scuoteva le membra.Nella terra dei due colori, le arroccate pietre, mai orbe, riconoscevano dotte, nell'una, i confini dell'altra...     Non ebbi neanche il tempo d'abbozzar congettura che l'oscurità venne lacerata da un chiarore confinato, tremolante. A terra, lungo quel confine che non vedevo, ma percepivo più reale dell'argilla che le mosse mi zavorrava, una vecchia lampada che dall'odore che spandeva avrei giurato fosse alimentata a petrolio, illuminava il pertugio di quella che subito m'apparve una baita, in legno. Piccina. Un nido.   Sulla porticina, stagliava il battente, d'ottone, anulare, e rilucente. A neanche un metro, sulla stessa ala, campeggiava bassa, l'unica finestra. Alle imposte era applicata una grata di ferro grezzo che ripartiva il vetro in quattro celle. Tutte uguali. Tutte appannate.Una luce, gialla, dall'interno ne delineava gli orli, e fioca, trapelava dalle fenditure, arrendevole.Avevo voglia di sbirciare, sapevo di doverlo fare. Ma questo non me l'aveva imboccato il vento. Lo sapevo da me.Voglie e desideri, non li delego. Mai.     Adesso, mani sapienti afferravano del pane già tostato. Spalmavano burro... Tanto burro... Non avevo mai veduto così tanto burro su di una fetta sola.    Radente, la mia mano scivolò lungo il mantello a cercarne l'orlo. Ne afferrai un lembo, e lo usai per ripulire il primo quadrante di quella finestra. Tentai.   La cultura è davvero importante, mi dissi. Se in terza elementare il mio maestro non m'avesse parlato della cavità toracica, quella notte, avrei scommesso il cuore fosse localizzato in gola. Tanto me la sentivo pulsare, calda, come niente di tutto il resto. Forse. Il respiro, già ansante.   Ecco che uno spargimiele, spavaldo, penetra la mia inquadratura. In legno d'ulivo, agli occhi. Lussureggiante, ai pensieri.   Con la bocca semiaperta, immobile come uno stoccafisso, godevo di quella scena rubata. Lo vedevo ricolmo e rilucente gremire burro, pane e quelle dita che, scaltre, quando non t'appagano, raccontano.Quanta storia m'avrebbero potuto raccontare quelle dita che come archetti, dirigevano, e affusolate, ammaliavano.    Ma poi, parliamoci chiaro, l'avrei davvero voluta conoscere tutta quella storia ? Allora lasciai decidere al cuore che già m'appariva stregato. M'aggiustai la tesa del queensland che portavo sul capo, feci un lungo respiro, e mi dissi di no. Quando una donna ti toglie il sonno alla notte e il respiro al giorno, il solo pensiero delle sue carezze su una geografia diversa dalla tua ti manda ai matti. Figuriamoci poi il saperla godere sotto un uomo, che di tuo, non porta neanche il nome.E' un po' come nel poker alla texana. Quando ne rimangono solo due. Quando sei in heads up. Se il tuo avversario va in all-in, non sei mica obbligato ad andarlo a vedere...Talvolta, è meglio non sapere.Per entrambi.Talvolta.    Tornai ad accostarmi a quella finestra un'ultima volta. Un ultimo sguardo a quella lunga veste nera che solo di spalle m'era fatto dono scorgere.E a quelle dita...Quanta storia ne avrei voluta io, con esse, tutte e sole, scriverne...M.(L'uomo dei difetti...)