L'uomo dei difetti

IL PRESCELTO (scena 1 e nuova scena 2)


 Volevo solo che lei mi notasse...    E mi guardò.Fece per sorridere. Pareva impacciata. Ringraziai Dio per il dono di quell'istante. Non l'avevo mai veduta così. Forse non l'avrei neanche più veduta così. La notte non mi riusciva di sognarla, e allora passavo il tempo migliore ad immaginarla. E sorridevo. Perché lei, sorrideva.Una donna capace ancora di arrossire e poi ingenua, disperdere lo sguardo stringendosi nelle spalle, emozionata.    Giocavo con gli occhiali, e non lo facevo mai. Mi riconoscevo a stento. Magari quello non ero neanche io. Eppure quelle sensazioni erano le mie, eccome. Certe vibrazioni non si raccontano. Non le puoi raccontare. Non le devi raccontare. Rischieresti di rendere felice la persona sbagliata, e allora, le avresti sciupate. E se anche quell'emorragia di turbamenti giacché trepidanti fosse appartenuta ad altro uomo,  allora io vi giuro: Invidio quell'uomo.Io in-vi-dio, quell'uomo!E mai taluno, invidiar talaltro, mi sorprese.Né uomo.Né donna.Né terra.   M'avevano scassinato il cuore.Il mio poi, figuriamoci!  Pensai.Blindato a tripla mandata dalle mie stesse voglie, dal mio stesso, solito, magistrale, conflitto di sempre: "L'uomo ardente, malizioso Vs L'uomo perbene, solido".Troppo malizioso. Troppo perbene.Uno scontro al vertice.La felicità, il premio.Una miscela che non conosce sfumature. Null'altro che il (V)ero, tra le pieghe del verosimile.Mai alzato la coppa, io.  Scesi i Rayban che tenevo inforcati sulla testa. Dietro le lenti scure gli occhi seguivano ogni suo palpito. Mi sentivo assurdamente legato al più inconsapevole dei suoi fremiti, come se a sua insaputa, essi già m'appartenessero. Come se al di là della sua muta impenetrabile ella non desiderasse altro che essere protetta. Aver fatto a pugni mille volte con la vita solo per arrivare a sedere in quel bar, a quel tavolino, in quel giorno. Allora tutto avrebbe avuto un senso. Finalmente libera di abbandonarsi al piacere di abbassare la guardia. Di non pensare più al devo, ma al dobbiamo. Ed io ero il prescelto.   Diede due colpetti con la mano al pantalone del tailleur come per liberarsi dalle briciole di quel pasto frugale indugiatele addosso. Tutto quel bianco cominciava a darmi alla testa. Me la toccai. Seppi così che ancora ne avevo una. Sulle spalle poggiava, perlomeno.   D'un tratto, repentina, s'alzò. Trasse a sé la borsa che sormontava lo sgabello al suo fianco. Un grande borsone di uno strano grigio, slavato, non uniforme, in pelle. Spaventosamente, grande!  Ne percepivo quasi la pesantezza mentre mi stuzzicavo con l'idea di quante e quali fossero le cose che ella potesse tenerci dentro. Cosa avrei dato per poter sbirciare lì dentro, nel suo mondo più intimo che già bramavo...    Tirò su la cerniera, e serafica, come se null'altro che lei avesse mai aleggiato in quella sala, dandomi le spalle,  s'avviò alla cassa.Il corpo era vestito come un guanto. Figurava come stretto in una morsa, soffice e sinuosa. Una stretta che gaia ne arginava gli umori. E che avida, l’odor tratteneva.   << Scusi, questo posto è occupato ? >>, mi domandò, sorridendo, la moretta che al mio arrivo sedeva al bancone. Avrà avuto non più di venticinque anni.Com'era ? Non saprei proprio dirlo. La sua figura intercettò il mio sguardo un paio di volte. Non una, la osservai.  << Libero, liberissimo. Stavo giusto andando via... >>, sorridendole di rimando, le risposi.   Balzai in piedi.Feci un lungo respiro e mi diressi anch'io verso la cassa.Presto avrei scoperto se la determinazione nel libero arbitrio avesse ragion d'essere. Se fosse stato davvero possibile scrivere il proprio destino. Ed io il mio...  
    Era quasi un anno che bazzicavo il bar “da Franco”. A quel tempo facevo il consulente per una società di telecomunicazioni che aveva gli uffici operativi a pochi passi dal bar, sulla stessa via, ma dall’altro lato della strada; un autorevole palazzone di cemento e vetro di ventidue piani.Mi ci affacciavo un paio di volte al giorno, un salto di primo mattino per il marocchino di rito e durante la pausa pranzo, con più calma.   Quella mattina, alla cassa c’era il roscio. Il figlio minore di Franco, il titolare. Frequentando l’esercizio per cinque giorni la settimana avevo imparato a conoscere anche gli altri due figli di Franco, anzi, con il maggiore, Lorenzo, era nata anche una sorta di amicizia suggellata dalla passione che condividevamo per la musica, e per i Genesis, in particolare.    Fui io ad attaccare bottone quando un Lunedì qualunque di una settimana qualunque, scocciato lui e assonnato io, lo vidi estrarre dal Technics di fianco all’angolo tabacchi, il cd di Baglioni appartenente al roscio fratellino per perorare la causa dei ben più di nicchia Genesis. Sgranati gli occhi al primo attacco di Peter Gabriel, mi schizzò fuori un << Grandissimi! >>, e schizzò fuori a briglie sciolte, così sciolte che tutti si voltarono. Si voltarono anche i vecchi che giocavano alla passatella già alle due del pomeriggio.   Di lì a poco il mio telefonino prese a vibrare e lo fece ripetutamente, erano i miei colleghi che dandomi per disperso mi richiamavano al dovere dalla pausa pranzo. Ed effettivamente in ufficio ci tornai, ma non prima d'aver fatto ritorno al tavolino e alla mia sedia, aver disteso le gambe incrociandole e goduto con occhi chiusi e sognanti, tutti i 22 minuti e 58 secondi di Supper’s ready.   La mia dea in tailleur seguiva pedissequamente il flusso di gente coi portafogli in mano che lento s’andava dipanando alla cassa. Un ingorgo che solo le notorie capacità del piccolo roscio sapevano come forgiare. Era un mago in questo. In qualsiasi altro frangente, il rimanere vittima della sua flemma patologica mi avrebbe dato ai nervi, ma in quel giorno, forse, giocava addirittura a mio favore.   Tirai fuori dalla tasca della giacca il mio cellulare e avviai una chiamata che dopo due squilli, come da copione, mi venne negata.E fu allora che ruppi gli indugi.    Partii sparato verso la faccia del roscio che spuntava al di là del bancone e scorrendo con lo sguardo la fila che avevo appena abbandonato alla mia sinistra, con la desolazione in volto, esordii con fermezza:   << Domando perdono. E’ di qualcuno la Classe A bianca con il pupazzetto rosa appeso allo specchietto che è parcheggiata qui davanti ? >>   Qualche timido “no” prese a liberarsi nell’aria, ma prontamente ricacciati al mittente da una voce aggraziata che fino a quell’istante avevo udito solo nella mia mente, nei miei sogni, e che emozionato attendevo si materializzasse alle mie orecchie, a conferma che, finalmente, i nostri due mondi l’uno all’altra oscuri, s’erano toccati. Ormai non potevo più tirarmi indietro. Sapevo di dover essere incisivo, preciso, fermo, di dover mettere da parte la mia emotività o essa m’avrebbe affondato. Ormai non era più solo una percezione. Persuaso che come al giorno sarebbe seguita la notte e alla notte il giorno, avevo cognizione che quella sarebbe stata la mia vera, ultima occasione.   << E’ la mia. Mi scusi, la sposto subito. Il tempo di pagare ed esco. >>   Non le lasciai il tempo di infilare la mano nel borsone grigio che, con espressione davvero dispiaciuta, la incalzai mentre mi avvicinavo tanto da poterle scorgere il taglio degli occhi dietro i suoi coconuda da diva:   << No, no, non è questo. L’ho urtata per sbaglio. >>, le parlavo osservando ogni movimento della faccia che nel frattempo non s’era affatto indurita, << Stavo facendo marcia indietro e per sbaglio ho impattato contro il paraurti posteriore. Niente di grave stia tranquilla, solo qualche graffio. Se viene, le faccio vedere... >> Titubò un momento, poi acconsentì.   << Okay, un attimo che pago. >>   << Mi permetta di offrirle il pranzo o quel che sia,  mi sento in colpa. >>, ribattei, alzando il palmo di una mano a mezz’aria come a dire “no, si fermi”.<< La ringrazio, ma non se ne parla nemmeno. >><< Insisto. >>, iniziai con voce autorevole, << La prego... Mi assecondi, sono già fin troppo mortificato per l’accaduto. >>, poi presi a mordicchiarmi il labbro inferiore, me ne accorsi solo quando si sfilò gli occhiali e agitando i capelli come una leonessa mi indirizzò un sorriso spaesato.Fino a quel momento il piano sembrava filare liscio. Pagai il roscio, e uscimmo.    Archiviati i piovaschi del mattino, adesso, il sole splendeva alto. Nel percorrere i pochi metri che ci dividevano dalla sua auto nessuno dei due fiatò, io avanti e lei alle mie spalle; fin quando non mi lasciai  superare e mi accesi una chesterfield. La guardavo, e mentre lo facevo, mi lisciavo con una mano la bocca e il mento, in attesa che fiatasse.   Si piegò per osservare meglio il suo paraurti posteriore, ci fece scorrere le dita sopra, si prese un paio di minuti buoni prima di riferirmi sbalordita ciò che già sapevo:   << Ma, io non vedo alcun graffio e poi la sua auto sarà a due metri! >>.   << Oh, che sbadato! Allora, forse, è il paraurti davanti quello graffiato… >>, le dissi, tentando di rimanere nella parte, e sobrio.   Si catapultò davanti. Qualcosa di nuovo effettivamente c’era, ma anche stavolta, non di graffi né di abrasioni si trattava.   La vedo fissare il cofano come imbambolata in una posa plastica.   Indietreggia e torna sul marciapiede. Un tremolio delle labbra, e la testa, sguardo a terra, prende a ruotare verso di me, lentamente, quasi a scatti di ripensamento intermittente, come di chi sa di dover arrivare in qualche posto, ma che questo avvenga il più tardi possibile.   Adesso, i suoi occhi incontrano i miei. Si prendono, si lasciano, errano, tornano, errano ancora e rincasano, perché è il turno della bocca.   << Cos’è… Uno scherzo ? >>, mi disse con un tono della voce che non lasciava adito a male interpretazioni. M’appariva seria, forse addirittura scocciata.   Non ero uno sprovveduto. Non lo sono mai stato. Avevo programmato quel momento. Dalle dinamiche d’improvvisazione alla cassa, al più morigerato bacio di gratitudine. Non avevo trascurato neanche i piani di riserva, ben due. Certo, nel conto c’era finito pure il rifiuto più sonoro, ma quel senso di irritazione nella voce e nelle movenze, no, quelle non me le aspettavo proprio. E allora, mi piegai alla piega che quella contingenza, a metà tra il brucior di pelle e il surreale, aveva preso.   << No, non è uno scherzo. Sono rose e sono sette. Sette, come i giorni che ti vedono nella mia vita. E sono per te. >>,dritto come un treno, le dissi.   << Ma se non mi conosci nemmeno! >>, esclamò con un tono ancora diverso e tutt’altro che distaccato, tanto da apparirmi combattuta.   << Appunto, i fiori erano per conoscerti. E’ una settimana che ti vedo al bar ed è una settimana che non so come smettere di pensare a te. E’ assurdo, lo so, ma è la prima volta che sento quello che sento. Ti vorrei nella mia vita perché tu sia la mia vita. >>, mi resi conto d’esser partito per la tangente, ma era quello che sentivo. Anzi, non era neanche un decimo di quello che sentivo.   Sembrava quasi impaurita. Un fascio di luce le colpiva il viso da un sol lato illuminandole il profilo fin sotto il seno, intiepidendolo. I capelli splendevano. Non so cosa avrei dato per affondare il viso in quei riccioli e respirarne il profumo. Di tanto in tanto un bagliore le colpiva gli occhi e la costringeva ad assumere svariate pose innaturali e tutto sommato divertenti. Era decisamente un bel vedere. E’ proprio vero, “il sole bacia i belli”, pensai. E subito mi venne da sorridere.   << Ma che te ridi !? >>, mi disse lei in romano.   Per chiunque, forse, non avrebbe significato nulla. Ma in quel “ma che te ridi ?”, io ci leggevo feeling, ci leggevo la rottura di quel ghiaccio che avevo veduto temprarsi sotto i miei occhi. Si, sarò anche un visionario, ma ad un certo punto mi convinsi m’avesse addirittura ammiccato.   Tanto io quanto lei non potevamo rimanere lì in eterno, da qualche parte c’era un lavoro che ci aspettava entrambi. Presi forza e mi approssimai a lei.   Avvicinai le mie mani alle sue e provai a prenderle mentre le osservavo tremolanti al mio sfiorarle. Si fecero toccare senza resistermi. Erano candide e gelide. Alzai la testa posando il mio sguardo sul suo viso. Gli occhi cerulei e truccati già mi studiavano, le labbra avevano un colore naturale, del belletto non v’era traccia, eppure rilucevano e così gli zigomi. Se fossi rimasto ancora pochi istanti così l’avrei baciata o perlomeno avrei accostato la mia guancia di traverso alla sua e chiudendo gli occhi, l’avrei respirata.    << Fammi entrare nella tua vita. >>, le sussurro, massaggiandole i polpastrelli delle mani, << Se solo hai il dubbio che io non ti sia indifferente, dammi la possibilità di conoscerti davvero. Senza fretta. Devi solo volerlo e per il resto, abbiamo tutta la vita. Se invece non vuoi, col deserto nel cuore, sparisco. Non mi vedrai più qui, cambierò bar così non ti sentirai a disagio incrociando il mio sguardo, sarà come se io non fossi esistito. Non devi dirmi nulla adesso. Promettimi solo che ci penserai. Io so che tu vieni a pranzo fino al Venerdì, il Sabato non lavori e quindi non vieni al bar. Ecco, io da domani fino a Venerdì non verrò di proposito. Verrò invece Sabato perché so che il Sabato tu non ci sei. Ma se invece, stavolta, tu dovessi venire… Per me sarebbe il tuo si ed io l’uomo più felice del mondo. Se al contrario Sabato non ti  vedessi entrare, sarà anche quella una risposta e allora non temere, non mi vedrai mai più. >>, conclusi, e le liberai le mani dalla stretta cagionata dalle mie.   Silenzio. Un silenzio assordante che venne rotto solo dall’inaspettato. Le sue lacrime. Gli occhioni presero a riempirsi, mi si avvicinò al petto accostandovi il volto, percepii le sue stille bagnare la mia pelle attraverso la camicia e mi venne spontaneo di abbracciarla. Non lo so, forse fu colpa mia, forse la strinsi con troppa verve che con un gesto di stizza mi scostò di colpo: << Scusami, non posso, io non posso… >>, mi gridò contro, mentre correva alla macchina. Rimasi così, senza fiato e senza piani, così, ad osservarla entrare nella Mercedes con le lacrime che copiose scendevano sul mascara e partire a razzo verso chissà dove, verso chissà chi, e con le mie sette rose rosse sul cofano. M.(L'uomo dei difetti)