L'uomo dei difetti

Il vecchio, e il ragazzino


Al vecchio brillarono gli occhi.    Si fecero zuppi e il verde dell’iride parve striarsi d’azzurro, come il colore che alle volte prende il mare. Era sempre così quando qualcuno o qualcosa gli riavvolgeva il nastro dei ricordi.   Se ne stava appollaiato a un margine del marciapiede quando il ragazzino gli porse il piccolo fagotto avana. Un mezzo toscano gli tremava tra le labbra tagliuzzate. Secche. La schiena, ch’era arcuata, dondolava contro un lampione verdebosco scorticato da graffiti e sulla cui sommità l’illuminazione vestiva le pieghe d’una coppia di caschi arrangiati schiena contro schiena, a mo’ di campanelle, raggianti. Ed erano le stesse che, a un tempo, illuminavano le vetrine della Standa.   Eh, già… Perché una volta là c’era la Standa che occupava i primi due piani del palazzo, mentre all’ultimo, ci abitava lui. Ma solo come pied-à-terre, perché lui, il vecchio, di appartamenti non ce ne aveva mica uno solo. Così come di Maserati.Attraversata la strada, a pochi passi sulla sinistra c’era Piazza del Popolo, con la torre dell’orologio, la palla e la fontana, e i piccioni. Una pioggia di piccioni. Le mamme e i nonni ci portavano i bambini che affascinati rincorrevano i colombi, tiravano loro molliche e ruzzolavano mentre invano tentavano d’acciuffarli e piangevano e ridevano. E poi c’era sempre qualche nostalgico che tirava fuori la Polaroid...   Oggi, la Standa non c’è più. Anche i piccioni non ci sono quasi più. Dotti e pezzi da novanta gli hanno dichiarato guerra: <<Imbrattano… E portano un sacco di malattie!>>, così hanno detto. E forse per solidarietà, se ne sono andati via anche i bambini, le mamme, e i nonni. In compenso, Piazza del Popolo sta sempre là. E sta là pure l’appartamento all’ultimo piano, che però, adesso, non è più del vecchio. Così come le Maserati, e tutto il resto.   Il vecchio sbrogliò il fagotto. Ficcò la mela in una tasca dell’impermeabile, e addentò la rosetta con la mortadella brandendola con entrambe le mani.   <<Ringrazia la mamma, figliolo>>, disse il vecchio con la bocca piena e lo stomaco vuoto.   <<No, signore… Il panino e la mela li manda il mio papà>>, precisò il ragazzino.Il vecchio drizzò il collo. <<E chi è il tuo papà?>>   <<Sono il figlio di Marco Zampa, mio papà lavora qui vicino, al comune.>>   <<Zam-pa… Zam-pa…>>, ripeté il vecchio calcando sulle sillabe, <<Non credo di conoscerlo il tuo papà. O forse, sono troppo vecchio per ricordarlo.>>   <<Papà però la conosce… Tante volte passiamo di qua con la macchina quando mi viene a prendere a scuola… E ogni volta mi fa: “Marcellino, lo vedi quello? Eh… Lo conoscevo quando non era un barbone, era intelligente e ricco, uno dei più famosi architetti di Latina, ma…”>>, il ragazzino si interruppe facendosi rosso in viso.    <<Ma… ?>>, lo incalzò il vecchio.Il ragazzino rispose prendendosela comoda, come per edulcorare le parole pronunciate dal padre: <<Ma… Aveva il vizio del gioco e ha perduto tutto… Pure la famiglia. Però mio papà dice che lei era un uomo buono e generoso e che è stato pure in guerra e conosce un sacco di storie...>>Il vecchio ravvolse nel foglio per alimenti avana quel che restava del panino, e lo intascò.   <<Allora, figliolo… Che ti hanno insegnato a scuola, oggi?>>, domandò spostando il discorso nel primo luogo lontano dal dolore che gli venne in mente.   <<Il maestro ci ha detto che il mese prossimo sarà il compleanno di Latina e che compirà 82 anni… E che prima era tutto sommerso dall’acqua e nessuno ci poteva abitare… Poi...>>, e poi gli scappò una risata che subito provò a nascondere con la manina a conchetta tappata sulla bocca.   <<Perché ti viene da ridere, figliolo?>>   <<No perché il maestro ha detto che si farà una grossa festa perché è il compleanno di una città giovanissima… Ed è strano perché la mamma a mio nonno lo chiama certe volte “il vecchio” e certe volte “il vecchiaccio” ed è più piccolo di Latina… Ha solo 79 anni… E la festa a casa non gliela facciamo mai perché la mamma dice che per lui è festa tutti i giorni che apre gli occhi la mattina… E quando chiedo a mamma che cosa significa, mi dice: “che ne vuoi sapere tu che sei piccolo, vai a fare i compiti!”. E allora è strano…>>, rispose il piccolo, che ancora sfoggiava un risolino ingenuo.   Il cielo, da plumbeo, sembrava essersi fatto nero di colpo. Il vento aveva preso a frusciare sollevando le fastidiose polveri che insistevano sulla carreggiata.   Il vecchio faticò a terra con le palme delle mani. Abbracciò il lampione, spinse sui talloni e si sollevò in piedi. Calzava un paio di scarpe logore entrambe scollate sulla punta. Timberland forse, cui aveva sfilato i lacci.    Indicò al ragazzino i portici dall’altro lato della strada.    Era ancora lì che attraversava le strisce che il bambino s’era già accomodato sopra una panchina con le gambe sospese dal pavimento, irrequiete e ciondolanti.Piegò le ginocchia con una smorfia di dolore e gli si sedette accanto. Il mezzo sigaro spuntava adesso senza brace a un angolo della bocca; marmoreo, come se fosse stato conficcato a fondo col martello.   <<Dunque, ti chiami Marcellino?>>   <<Marcello Antonio>>, completò il ragazzino. <<Ma solo il maestro mi chiama così, e solo quando fa l’appello. Tutti mi chiamano solo Marcellino.>>    <<Marcellino pane e vino!>>, esclamò il vecchio ridacchiando.   Il ragazzino arrossì sorridendo a sua volta. Si strinse nelle spalle, e dileguò lo sguardo chinando il capo.    <<Quanti anni hai figliolo?>>   <<Nove. Faccio la quarta.>>   Il vecchio si aiutò facendo leva con le braccia e fece aderire le reni alla spalliera della panchina. Una seconda smorfia di dolore, e allungò le gambe.   <<E tu… Vuoi bene a tuo nonno?>>   <<Sì che gliene voglio!>>, esclamò il ragazzino, <<È tanto buono il nonno… Mi ha insegnato anche a pescare… E di nascosto mi ha fatto pure girare il manubrio della macchina intorno a casa sua in campagna… Il nonno schiacciava i pedali e io guidavo!>>   Il ragazzino sprizzava eccitazione. Era radioso mentre parlava del nonno.   <<E quando vai a trovarlo gli porti mai qualcosa, chessò un frutto, un tuo disegno, un piccolo regalino?>>   <<Veramente… Non mi ci portano quasi mai, a mamma non va e mio papà tante volte ci passa da solo dopo il lavoro...>>, rispose incupendosi, inclinando un poco la testa da un lato e tormentandosi le labbra coi denti.   Discorrere col sigaro che gli ostruiva un settore della bocca non gli creava alcun disagio, anzi, dava la sensazione che fosse un esercizio che perpetrava con disinvoltura da decenni. <<Vedi figliolo… Io sono più vecchio di tuo nonno e di Latina… E io e te non siamo niente. Non siamo parenti. Eppure, a me hai portato da mangiare. Ho pianto mentre t’avvicinavi con quelle manine timorose stringendo il fagottino… Perché anche io ho figli e nipoti e tutti sanno dove sto e nessuno mi è mai venuto a cercare, figuriamoci portarmi da mangiare o uno straccio da vestire...>>, disse il vecchio con la voce sempre più strozzata mano a mano che s’addensavano le parole, <<Ma io me lo merito. Ho fatto del male a tanta gente. Ho deluso e tradito il mio stesso sangue. Sono stato cattivo e forse ancora lo sono… Ma non ho più nulla da perdere, ed è questa, forse, la mia salvezza. Ma tuo nonno… Tuo nonno è buono. Chiamalo, figliolo! Cercalo! Fattici portare da tuo papà! Abbraccialo! Porta anche a lui una mela, un panino, qualsiasi cosa! Goditelo, figliolo! Perché lo sa solo Iddio per quanto ancora ce l’avrai su questa terra… Fallo, e non pensarci! Perché il giorno che ci penserai, sarà già troppo tardi...>>, il vecchio era visibilmente scosso. Sollevò una mano e l’avvicinò tremolante alla testa del piccolo, come per posargliela sul capo e scompigliargli i capelli in un gesto affettuoso. Ma volgendo il polso scorse il palmo sudicio e le dita giallognole, e così, con malcelato imbarazzo la ritrasse, e finse allora di sfregarsi un ginocchio.   Marcellino lo osservava in silenzio. Le gambe avevano smesso di dondolare.   Tirò fuori un pacchetto di svedesi, ne estrasse uno e lo sfregò. Con la precisione di un chirurgo agitò le dita, lo stelo prese a prillare e la capocchia finì sotto il palmo della mano. La fiamma si inclinò, prese corpo. Si protese in avanti col sigaro inforcato tra le labbra secche, e vi si accostò. Fece due brevi boccate seguite da una terza che pareva interminabile. La brace gli brillava nella bocca che pronta all’incendio si spalancò per un terzo, e la faccia del vecchio svanì dietro una nuvola di fumo.   <<La vuoi sentire una storia?>>, propose poi al ragazzino.   <<Che storia?>>   <<La storia di Littoria… Con le sabbie mobili, gli insetti assassini, i bufali, e i cattivi… Quelli veri.>>   <<Chi è Littoria?>>, domandò curioso il piccolo.   Il vecchio torse il collo e posò lo sguardo dapprima sul piccolo, dunque sulla parete alle loro spalle. Tese il braccio per adagiarlo lungo la spalliera della panchetta e fece guizzare il polso all’indietro. Le nocche della mano bussarono contro la parete originando rumori sordi: <<Littoria è questo muro.>> Poi l’indice della stessa mano puntò una colonna rivestita di travertino dal lato opposto della strada: <<Littoria è là!>>, <<Ma anche laggiù!>>, disse infine sollevando lo sguardo e disperdendolo fiero da parte a parte.    <<Figliolo… Littoria è la città che abiti. Latina è solo il nome che gli hanno appioppato dopo…>>   <<Bello!>>, esclamò sbalordito il ragazzino, <<Che poi la settimana prossima ha detto il maestro che ci farà fare pure un tema… Ma perché gli hanno cambiato nome?>>   <<Ecco… A spiegarti questo faccio fatica anch’io. Ma tu non preoccuparti, ascolta la storia e se non capisci qualcosa, appuntalo nella mente… Me lo domanderai poi. Per adesso, ricordati solo che il suo nome era Littoria.>>   Il ragazzino annuì col capo. Ma la curiosità la faceva da padrona e lo interruppe ancora: <<Ma davvero c’erano le sabbie mobili qui?>>   <<Certo che c’erano, che credi!>>   <<E dove stavano?>>, domandò già fin troppo attirato da quei presupposti.   Gli puntò un dito sulle gambette. <<Una stava precisamente qui sotto… Proprio dove sei seduto tu!>>, esclamò di getto, facendo la voce grossa e sgranando gli occhi.   Il ragazzino balzò in piedi così in fretta che mise un piede in fallo e capitombolò a terra.    Il vecchio si lanciò in una fragorosa risata, che dell’interno della bocca nulla lasciò all’immaginazione. Né l’oro delle otturazioni, né tantomeno il diastema tra gli incisivi.   <<Torna qui, figliolo… Ti sei fatto male?>>   <<Sembra di no...>>, gli rispose mentre era ancora inginocchiato ad allacciarsi una scarpa.   <<Perdonami, figliolo… Sì, adesso ti ho preso in giro, ma c’erano davvero le sabbie mobili, e si moriva…>>, la mano, distesa, atterrò sulle stecche della seduta lasciata vacante, <<Vieni… Che adesso si fa sul serio.>>   Il ragazzino scattò in piedi e tornò a sederglisi accanto.   Il vecchio gli fece l’occhiolino, e sorrise. Fece un’altra lunga boccata, e il racconto ebbe inizio. <<Littoria…>>, iniziò, e subito ammutolì. Gli occhi erano tornati umidi.    La manina del bambino s’era posata sul trench del vecchio e ne tratteneva un lembo: <<Signore…>>, pronunciò con un filo di voce.   Il vecchio era da qualche parte, ma non là. Una lacrima si slacciò rigandogli uno zigomo per poi acquietarsi a ridosso d’una piega profonda.   Un fulmine squarciò il cielo. Il bagliore fu accecante. Il viso del ragazzino scattò di traverso.Il fragore del tuono fece trasalire il vecchio, che d’istinto si deterse gli occhi con il dorso di una mano.   Ormai pioveva a dirotto.   <<Dove eravamo, figliolo?>>, disse portandosi una mano alla fronte, <<Ah, ecco…>>, rinsavì poi.   Si cacciò dalla bocca quel che rimaneva del tabacco. Sospirò. Si schiarì la voce, e fiatò con tono solenne: <<Littoria, quando ancora non era Littoria e men che meno Latina, era una palude circondata da paludi e da foreste di lecci, querce da sughero, e pini. Dove non stavano i pantani, stavano le foreste, che inestricabili, eran dette selve...>>   Il ragazzino lo ascoltava con la bocca semiaperta. Il vecchio sospirò ancora, e riprese con un registro meno formale: <<Ah, figliolo! Se avessi visto quello che c’era prima… L’hanno chiamata, “la grande bonifica delle paludi pontine”… Così l’hanno chiamata. Guerra, la chiamo io! Un’opera colossale! Si era combattuto una vera e propria guerra contro una natura ostile, malsana e allo stesso tempo affascinante, unica. E si aveva avuto la meglio là dove tutti, dai volsci ai romani ai papi, nel corso dei secoli, avevano fallito.>>   <<Ma come hanno fatto a togliere tutta l’acqua?>>, chiese il ragazzino.   <<Non fu affatto uno scherzo, ragazzo! Si scavarono chilometri e chilometri di canali per drenare a mare parte delle acque e furono piantati migliaia e migliaia di alberi assetati. Certi bacini, però, erano più difficili da far scorrere perché stavano sotto il livello del mare e allora servirono delle gigantesche pompe per sollevare le acque. Pompe idrauliche tra le più potenti al mondo!>>, riprese fiato, <<Ma il vero problema era la malaria… E i morti, come in tutte le guerre. E qui arriviamo agli insetti assassini…>>   <<Gli insetti assassini…>>, ripeté a bassa voce il piccolo.   <<È così, figliolo… Forse a scuola non te ne hanno ancora parlato, ma c’è un tipo di zanzara che non perdona. Ti punge, ti ammali e rischi la pelle. E qui, quando c’era la palude, era pieno zeppo di queste zanzare maledette. Migliaia di uomini sono morti per essere stati punti… Proprio mentre lavoravano alla bonifica, mentre lavoravano per noi…>>   Il ragazzino lo ascoltava rapito. <<Ma come hanno fatto a cacciarle?>>   <<Cacciarle?>>, fece ironicamente il vecchio, <<Sterminarle! Ed è stato davvero duro… Occorse un insetticida potentissimo e una speciale famiglia di pesci che mangiavano le uova delle zanzare che stavano a pelo d’acqua… Che poi c’era la guerra e quando la malaria sembrava ormai vinta, i tedeschi per contrastare l’avanzata degli americani ci sabotarono i canali che non finivano più a mare, e ricominciò ad allagarsi tutto. E allora di nuovo le zanzare, la malaria, e altri morti. E poi…>>   Il suono insistente di un clacson si distinse tra il rumore intenso della pioggia scrosciante.   <<Che storia!>>, esclamò il ragazzino, <<Ma ci vuole ancora tanto prima di arrivare alle sabbie mobili?>>   <<Un’altra volta…>, rispose il vecchio.   <<Perché?>>, domandò ancora, <<Proprio adesso che stavamo sul più bello...>>Il vecchio indicò con un cenno del capo l’uomo sulla quarantacinquina che, dal fondo dei portici, li fissava tenendo in mano un ombrello. <<Perché penso che quello lì sia tuo papà… E che tu debba andare.>>   Il ragazzino si voltò. <<Ecco, papà… Vengo subito!>>, gridò, agitando una mano oltre la sua testa.   <<Mi tocca andare… Ma domani torno, faccio i compiti e torno!>>, gli disse spostando il    peso del corpo mingherlino da un piede all’altro.   <<Ciao, figliolo>>, lo salutò sorridendogli con gli occhi.   Il ragazzino aveva percorso già oltre la metà dei pochi metri che lo dividevano dal padre quando d’improvviso si arrestò. Si voltò e tornò di corsa dal vecchio.   <<Che ti sei perso, ragazzo?>>, gli disse mentre il piccolo mordicchiandosi un labbro lo fissava di sottecchi.   <<Non ci credo che sei cattivo.>>   Il vecchio, ch’era curvo in avanti, abbassò lo sguardo. Non disse nulla.   <<E non è vero che non siamo niente>>, fiatò ancora il piccolo.   La testa del vecchio ebbe un fremito. Da qualche parte scovò la forza, e la sollevò. <<E cosa siamo?>>   Il ragazzino gli andò sotto e gli cercò una mano con la sua. <<Amici>>, disse.   Quello fu l’ultimo giorno che il ragazzino vide il vecchio, e il penultimo, che il vecchio vide la vita. M.(L'uomo dei difetti...)