Creato da Massimiliano_UdD il 30/03/2012

L'uomo dei difetti

Le riflessioni di un Viandante fuori dai giochi...

ORMAI SIETE QUI E SIETE VENUTI SPONTANEAMENTE!

Credo ci sia un'effettiva possibilità voi siate approdati al mio umile desco per errore. Magari proprio mentre facevate click sul blog della procace biondona di turno. Un'emozione di troppo, la mano che trema, e il click che va a finire sul collegamento di fianco. Questo. Il mio ovvero de "L'uomo dei difetti". 
Il convivio ha già avuto inizio, quindi, vi avverto.
L'ospite è sacro, ma il padrone di casa va onorato. Allacciate le cinture, mettetevi comodi.
Il viaggio ha inizio...

 

QUESTA, è LA MIA

 

Questa è la mia.

 

 Difficoltà mi colse
quando spaiato volli,
col verbo,
plasmare il siffatto legame,
tra l'uomo normale
e la (D)onna sua regale.


Inebriante è il profumo,
ansante è il respiro,
di tanti momenti
è il mio taccuino.


Funesta la sete
mai paga la fonte
.
Tra i fuscelli,
rovente,  la via mi confonde.
Allorché  dotto in pazzia,
borioso sentenzio:
Questa,  è la mia.


M.
(L'uomo dei difetti...)

 

QUANTA STORIA DIETRO UN VECCHIO...

Ad ogni nuovo respiro...
Si fa la storia.

Immaginandomi al "capolinea", vorrei potermi voltare e abbandonarmi ad un'ultima illusione:  Aver fatto della buona storia.

Quella che state per leggere,  in particolare,  è una riflessione alla quale sono intimamente legato.
La scrissi qualche anno fa, a matita...  E la scrissi per me.
Davanti, avevo il camino.
Alle spalle,  i trentacinque anni che m'avevano veduto bambino, ragazzo, uomo.
Intorno, solo l'abbraccio dei ricordi.
Lo sguardo, solo in parvenza perduto a discernere tra le fiamme il punto angoloso dalla cuspide. Avrei voluto, forse dovuto, esser nudo per godere appieno della proiezione che, "al di qua" dei miei occhi, s'andava saggiando...

Ho provato ad immaginare "il Vecchio" che potrei diventare...

IL VECCHIO


Non conquisto nuove terre per recintarle.
Le conquisto per conoscerle.
A me non importa se l'Amore impazzisce ancora per il mio odore,
se ho gettato la spugna o se ho deposto le armi.
Quello che conta è averlo conosciuto.
Attraverserò la Primavera,
poi quella dopo, e un'altra ancora...
Avrò gli occhi zuppi d'acqua,
saprò tante cose più di oggi,
  altrettante le avrò dimenticate
e allora mi chiameranno "vecchio".
Non il saggio...
Il vecchio.
Quanta storia dietro un Vecchio...


M.
(L'uomo dei difetti...)

 

QUESTA NOTTE è GIà DOMANI

Chi davvero ti vuole Bene sceglie le parole quando ti parla...
Chi ti ritiene importante non ti offende...
Chi preferisce perdere il suo tempo piuttosto che trascorrerlo con te, potrà anche essere una brava persona, ma, certamente, non è quella giusta per te...
Se in cuor tuo credi di meritare qualcosa in più della pura elemosina, abbandona il carro vizioso e affinchè in te rimanga ancora traccia di uomo, dileguati nella notte, quando tutti dormono, senza far rumore... e l'unica ombra che ti porterai dietro sarà alla stregua di un brutto sogno.
Questa notte è già domani...

M.
(L'uomo dei difetti...)

 

AREA PERSONALE

 
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Il Carbone, e la Befana.

Post n°180 pubblicato il 05 Gennaio 2015 da Massimiliano_UdD
 

La streghetta befana

Ero solo un ragazzino...
   Mi piaceva da morire il carbone. A tocchi, dolce. Quello che trovi nelle calze preconfezionate. O meglio, quello che trovavano i più fortunati. A me, non capitava mai. E questo mi dispiaceva, e non poco. Per i miei cuginetti, invece, era un appuntamento fisso. E quando non mi riusciva di rubarglielo,  lo assaggiavo da loro.
   In famiglia facevo il discolo di proposito perché così m'avevano raccontare di fare. Eppure, niente. Non m'arrivava mai. 
   La mia sorellina, diceva:
  
<< Il carbone sta dentro le calze piccole che si comperano alle bancarelle. A te, invece, la befana, porta la calza gigante, piena zeppa di cose buone, di che ti lamenti! >>.
   "Sarà...", mi dicevo.
In effetti, ad esser grande era grande, ma... Il carbone, neanche a pagarlo.

A distanza di anni, da buon viandante, ci ho voluto riprovare.
   La scorsa notte ho conosciuto una persona mentre rincasavo a piedi.  A due passi dal tratto discendente del ponte delle acque medie. Mi bastò di scrutarla per pochi lunghi istanti, e fui certo d'incanto di avere a che fare con la befana. Non ebbi alcun dubbio.
Anche perché ad un certo punto m'accennò qualcosa riguardo alla scopa.  Ed io, quando sento "scopa" da una donna mai veduta prima, non mi formalizzo più di tanto, e penso subito alla befana.
  Era abbondantemente più bassa di me, di quasi una testa. Mi dà un'occhiata sommaria, e mentre finge di sistemarsi quella che a me, in parvenza,  pare una cinta allungata, ma che quelli che parlano bene avrebbero di certo chiamato "gonna", mi disse:
   << Ti va ? >>
Mi ritagliai il tempo per un lungo respiro, mentre ancora le osservavo la bocca dischiusa e malamente imbellettata.
   << Mi perdoni, signora.  Sono fuori per il carbone, stanotte. >>, dissi io.
   Prese a sollevarsi con entrambe le mani quel che rimaneva della stoffa sotto la vita. A quel punto, io che non dormo da piedi, immaginai lo stesse facendo per il timore che l'oscurità rotta dal quell'unico fioco lampione, non m'avesse fatto ancora intendere che la befana tutto indossasse fuorché le mutande.
E quella non fu neanche l'unica, di scoperta, che per la verità feci...
   << Ragazzo, ho tutto quello che vuoi. Ed è tutto, qui. Vieni... Ne ho tanto di carbone.  E fuoco...>>
Le mie certezze, d'un tratto, vacillarono. E allora scaltro, m'attanagliò il dubbio. Non ero più affatto certo ci stessimo riferendo allo stesso articolo...
   Le posai il mio sguardo addosso, lo feci scorrere da capo a piedi, e arrangiando poi le labbra in un ghigno, pensai:
   "E' proprio una condanna...
Io e il carbone, uno da una parte, e uno dall'altra...
"

   Mi sistemai la tesa del queensland che portavo sul capo, e le dissi:
    << Si copra, signora. Fa freddo, stanotte. >>
   M'ero già avviato per una ventina di metri quando udii ancora il timbro della sua voce provenire dalle mie spalle:
    << Ragazzo! Ragazzo, dico a te! ... Ma non avevi voglia di carbone ? T'assicuro che così rovente... >>
   Se sette anni prima non avessi smesso di fumare, adesso, avrei frugato le tasche, e acceso una delle mie Chesterfield Blu.
Tutto m'era eccentricamente chiaro. Tanto ieri, da piccino, quanto oggi, da uomo.
   Torsi il collo, la guardai di traverso, e sorridendo spavaldo, alzai testa, cappello e voce: 
   << Dice bene, signora! ... Dice bene! ... Certo che lo volevo... L'ho sempre voluto. Ma... che le devo dire, evidentemente, non l'ho mai meritato... >>


M.
(L'uomo dei difetti...)

[Post Scriptum]
   Felice di averlo ripubblicato oggi, perché stanotte, tutto può ancora succedere.
Se chiudo gli occhi, la sento fluttuare. Chiudeteli anche voi. Provate.
Il vecchio mi disse: << Bisogna solo saper attendere, ragazzo. La luce lascerà il posto alle tenebre. Le tenebre lasceranno il posto alla luce e tra le mani ch'erano nude, poi, del prodigio il solo effluvio. E allora, ragazzo, tu saprai che quello che non c'era, esiste!  Dillo, ragazzo! Dillo! Bisogna solo saper attendere... >>
   Questo mio, oggi, per attender(e/la) insieme...

 
 
 

Il puro, e l'altero.

Post n°179 pubblicato il 30 Dicembre 2014 da Massimiliano_UdD
 

Il puro, e l'altero.


Allorquando il passo fu fermo,
allorché nudo,
del mio uscio il Viandante picchiò il battente...
E sedette al mio umile desco rinfrancato dall'amore dell'uomo.
Dalla dedizione del buon padre,
preservato.

A colui che annunciato da migliore arroganza
sostasse stizzito dinanzi la soglia...
Io dico che tronfio non s'angusti.
Dacché troverà anch'egli,
certamente,  degno ristoro.

Al civico appresso.

 

 

M.
(L'uomo dei difetti...)

 
 
 

I miei ricordi di Natale

Post n°178 pubblicato il 23 Dicembre 2014 da Massimiliano_UdD

   Anche quest'anno, il Santo Natale è arrivato. E anche quest'anno, vi lascio in compagnia dei  miei ricordi da bambino. Sempre gli stessi, perché io mai fui più lo stesso. Ricordi di quando tutto era bello. Di quanto io e mia sorella Stefania scherzavamo, litigavamo e sorridevamo, entrambi, sulla stessa terra. Un nuovo anno non è solo un anno in più sul groppone, ma è anche un anno in meno che mi separa dal riabbracciarla. E allora, io lo rispetto, perché esso non m'è ostile.
 Mi fa piacere offrirvi un'ideale calice di Bellavista e lasciarvi con qualche mio ricordo, intenso e denso perché pregno... Di me, in stille.


Buon Natale, di cuore...

 

 

   Ci fu un tempo che mi vide piccino…
Non saprei come parafrasarlo. Tuttavia, allorquando nostalgico, talora malinconico, mi ritrovo ad abbandonare il corso d’opera a favore della mia infanzia, alla mente, un solo mese, un solo luogo, e al corpo una sola percezione, affiorano.
Dicembre, e il freddo, fuori.
I miei affetti di fronte al camino, al caldo, dentro.
Mia mamma che stende castagne, patate americane, e mentre racconta aneddoti su antenati e Janare che giura essere veri, mi rimprovera di star troppo sotto, troppo vicino al fuoco, e al suo scoppiettio.
Mi sembra di sentirla: << Allontanati dal fuoco! … E tu, Stefà!... Stai attento a Massimino! >>, ah be’, le mamme. Che bella invenzione, le mamme. Su questo, poco è davvero cambiato, per lei sono Massimino anche oggi che ho quarant'anni e supero il metro e ottanta.
Ed io, puntualmente, come se mai glielo avessi domandato prima: <<Mamma… Cosa sono quei fischi che fa il fuoco ?>>.
   << Quelle sono le malelingue, Massimino. >>
   << Le malelingue ?... Parlano male di te ? >>
   << No. Solo di te. Adesso scaldati, e stai zitto perché devo studiare. >>, intromettendosi tra me e la mamma, mi rispondeva mia sorella che poi intenerita dal mio esserci rimasto male, sorridendo, mi passava la mano tra i capelli, scompigliandoli. E facendomi sentire ancor più piccolo di quanto in realtà io fossi. E mi piaceva. Perché ero un bambino. Perché il mondo e il suo lerciume non m’aveva ancora invaso le froge. Perché l’odore di certi istanti, te lo ritrovi impregnato nei ricordi fino alla fine. Quasi a volerti dire: Questo è ciò che è stato. Questo è ciò che mai tornerai ad avere. Fattelo bastare.
E invece, non basta mai. Le cose belle non bastano mai perché durano poco. Troppo poco. A cinque anni, come a quaranta. Sempre.
Ho sempre avuto le mani gelate. Sempre. Mani e piedi ghiacciati. La mia sorellina che era più grande di me, ci scherzava:
   << Hai le mani ghiacciate perché il sangue ti è finito tutto sulle labbra! >>, e tutti ridevano, e ridevo anch’io. Ma non sapevo il perché. Era bello e basta. Tuttavia, la spensieratezza, le risate, tutto faceva parte del conto. Perché le cose che contano non sono mai in saldo. E la vita, segna tutto. Il pareggio non esiste. Ma esistono le lacrime che copiose, mai paghe, m’avrebbero scortato, inesorabili, lungo gli anni avvenire.
Ma questa, è la mia storia. 
    E allora, di storia, ve ne racconto un’altra. E nonostante le premesse, vi assicuro, non meno fondata della prima.

 

 

L'arcano Cavaliere e la Fanciulla

 

 

L'arcano Cavaliere e la Fanciulla

   Ricordo che un giorno un Vecchio mi raccontò di una terra, di un lago, e di un guscio che galleggiava ad un palmo da una sponda delle sue.
   In quel guscio di legno, in quella terra che neanche le mappe sapevano appuntare, viveva una fanciulla...
Aveva modi gentili, e benché vivesse sola, ella non era triste. Sapeva di non essere una donna come le altre. Ma questo non le creava motivo di disagio. Trascorreva le giornate coltivando con passione i talenti per i quali era venuta al mondo. Leggeva, al giorno, e scriveva, alla notte. Poesie. Storie. Ricordi del suo essere donna. Desideri...
E quando le maglie dei pensieri non la vedevano assorta, era dedita a preparare leccornie, angeliche, e fragranti.
Tutto quanto ella toccasse, diveniva florido, rigoglioso e zuccherino.
Si racconta che in un pomeriggio invernale, assorbita e fragile, avesse appena ammassato della farina allorquando un’emozione, slacciata, s’abbandonò in stille su quell’impasto che poroso crebbe solenne sotto i suoi occhi. Ne fece del pane. Tanto, pane. L’alba s’affacciò, e solo ad allora ella smise di sfornare il frutto dell’amore. Il solo profumo aleggiò su quelle terre per tre giorni e due notti.

   La Fanciulla aveva pretendenti e pretendenti vestiti da cultori...
Di tanto in tanto, leggiadra, aveva voglia di donare un sorriso alla gente del lago che sulla terra ferma, rispettosi, mantenendosi a distanza le facevano visita per cogliere il solo riflesso di quella bellezza, e offrire il proprio dono. L'unica possibilità per essere ricordati, forse...

   E poi c'era un Cavaliere, solitario, misterioso...
Viveva in una terra lontana... Lontana dalla Fanciulla, dai cultori, dai pretendenti, e dai cultori e pretendenti...
Non era più ricco, più alto, più bello, più intelligente degli altri, e non vestiva neanche d’azzurro…
Ma egli aveva un (S)ogno, e un cuore che se solo la fanciulla l’avesse saputo, voluto, potuto leggere...
E tutte le mattine s'alzava dal suo giaciglio di piume vestito di solo quello.

   I suoi non erano piani, ma disegni.
La sua anima, pura, era la tela. Il suo cuore, il carboncino.
Avrebbe voluto adorare quella figura leggiadra che una sola volta gli era stato fatto dono scorgere mentre lasciava abbeverare il cavallo a pochi metri da quel rifugio in legno, fluttuante. E dagli sguardi circospetti, bassi e irretiti degli uomini in bivacco.

Mai alcuno, forestiero, nostrano, aveva osato avvicinarsi così tanto a quella creatura che di terreno aveva ben poco.

   "Insolente...", pensò la fan
ciulla mentre osservava la scena affacciata dall'unica finestra.
Col gomito urtò un barattolo di vetro, ma non se ne curò. Gli occhi erano ormai perduti, altrove.
   << Non andartene, trova la chiave, tu puoi, tu... >>, questo, invece, disse tra sé e sé, mentre le iridi, pervinche, lo seguivano sellare il destriero, e risalendo la sponda, allontanarsi. E poi svanire, come un sogno quando ti ritrovi d'incanto a fissare il soffitto, a palpebre dischiuse, nel cuore della notte. Come quando pensi che forse, tutto quello che hai vissuto, presagito, non sia mai esistito. Si, forse è andata proprio così.
   Eppure, quel barattolo di miele era ancora per terra, e rovesciato, profumava...


M.
(L'uomo dei difetti...)

 

 

 
 
 

Vi presento la piccola LiLLi !

Post n°177 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da Massimiliano_UdD
 

Lo scorso 19 Settembre ho perduto la mia piccola cagnolina Luce. Aveva sedici anni. Qualcuno equipaggiato con mezza porzione di cuore, mi disse:
   << Di che ti lamenti !? E' campata pure troppo, il mio pastore tedesco è morto a dieci. >>
   Chi conosce il dolore, non avrebbe parlato così. Chi ama, non parla così.
Avevo promesso a me stesso che non avrei mai più preso con un me alcun esserino carico d'amore. Ho sofferto tanto, troppo. Ho sofferto come non immaginavo di poter soffrire per la perdita di un animale.
   Tuttavia... Quando Giovedì scorso mi è stato detto che un cucciolo dagli occhi verdi era stato abbandonato dentro un cassonetto, coperto di buste e rischiando di morire, soffocato e al gelo... Non ho saputo dire di no.
   Si è già ambientata benissimo e si sente la padrona della mia casa. Tra qualche mese comincerò a portarla anche in ufficio.

Certo, non è Luce... Non sarà mai la mia piccola LuceTTa.
Ma sento comunque già di adorarla, perché lei mi adora.


Oggi, ho voglia di farvela conoscere.
Benvenuta piccola amorevole Lilli !

 

 

La mia Piccola LiLLi - Vestitino

 

La mia Piccola LiLLi - Assalto al divano

 

La mia Piccola LiLLi - Riposino

 

 

M.
(L'uomo dei difetti...)

 
 
 

IL DANDY

Post n°176 pubblicato il 29 Novembre 2014 da Massimiliano_UdD
 

Ci fu un tempo in cui conoscevo un ragazzo che conosceva ancora poco la vita. Quelli, sarebbero stati gli anni suoi più belli. Gli anni in cui il dolore era solo qualcosa che s’ammucchiava al paniere dei sostantivi dello Zingarelli; il suo poi, l’aveva pure ereditato tutto sfilacciato e con tanto di pagine svolazzanti decorate da caffè in macchie solidali alle orecchie che ne addolcivano gli angoli, ma non i timpani che puntualmente venivano frizionati dalle urla della madre.
   Alle mamme, si sa, le orecchie ai libri non sono mai andate a genio. Ma non cullatevi sugli allori, perché anche il rigar dritto, non garantisce affatto l’immunità.
Sentite questa.
   In terza elementare ero diventato bravo e attento. Ricordo un tardo pomeriggio di Dicembre. Dopo più di due ore investite a leggere una ventina di pagine di sussidiario e fare di conto, tutto contento chiamo mia mamma:
<<
A ma’ ! Guarda che bravo che so’ stato, manco na recchia !  Mo’ posso anna’ a gioca’ a pallone co’ Pedro… >>
E mia mamma, con la scopa in mano, insospettabile:
<<
Tu non vai proprio da nessuna parte. Le pagine sono troppo nuove, neanche un’orecchia non è da te. Scommetto che non l’hai nemmeno aperto il libro! … E non piangere! Tra un’ora torna tua sorella e ti controlla i compiti. Intanto, comincia a leggere… E dall’inizio! >>
Insomma, puoi anche essere nel giusto, ma quando sei piccolo… Orecchie o non orecchie, sei spacciato. La tua fama di maschio ti precede.

Pensate un po’ se avesse scoperto che a far pipì dal balcone ero io e non mio cugino Pedro...

 

 

La rossa del Dandy

 

 

   A due passi da Piazza del Popolo c’era la Standa. Adoravo perdermici dentro. Il compartimento moda intavolava già dopo l’ingresso. Il piano terra era letteralmente disseminato da abiti e articoli di merceria. Per raggiungere la scala mobile d’accesso al secondo piano dovevi mettere in conto uno slalom tra manichini, lingerie, e stampelle adornate e pesanti piazzate su supporti rotanti di metallo. 
   Nel solo reparto dei dischi ci stazionavo almeno un’ora. Poi, un salto al piano rialzato dei libri, e il danno era bello che fatto. Entravo con gli occhiali da sole e all’uscita, era sempre notte.
   I libri della Standa non frusciavano come quelli delle librerie che ero solito frequentare. Affondavo il naso tra le pagine mentre le facevo scorrere a raffica e sapevano di buono. L’odore dei libri nuovi è uno di quegli odori che non sai mai come descrivere, ma che riconosceresti tra mille e uno e più effluvi.

   Quel pomeriggio, c’era un bel sole. Saranno state si e no le tre. Per non attendere l’apertura della Standa davanti al marciapiede come un fesso, decisi di fare un giro in Piazza del Popolo, godermi lo spettacolo dei piccioni e lasciare che le lancette scorressero un poco oziose.
   Il solito via vai di studentesse, donne coi bimbi in braccio che spingevano carrozzine ricolme di buste della spesa, anziani dal volto paonazzo che rincorrevano nipotini pestiferi, e tutto questo, accadeva al sole. Si, al sole, perché all’ombra, invece, seduto su una rampa di gradini, c’ero io. Tra le gambe l’inseparabile Invicta Jolly Top e in mano l’uniposca per imbrattare l’ultimo angolo dello zaino stranamente ancora vergine.
    Ecco che una Bentley Azure color panna s’avvicina lenta alla fila dei piloni di cemento che delimitano la zona pedonale centrale. Il motore è in folle, il ruggito dei seimila centimetri cubici mi graffia entrambi i timpani mentre visualizzo nella mente l’ago dei giri-motore svettare oltre la soglia dei cinquemila.
Adesso, il silenzio.
La tigre è arrivata.  E’ sazia. L’hanno sentita tutti.
I miei occhi gli sono addosso. Non la mollano.
E’ il turno degli umani”, penso.
   La portiera del conducente si spalanca in due tempi e ne viene fuori un uomo distinto sulla sessantina, elegante,  copri capo a tesa larga e cappotto cammello. Lo  scorgo chino infilare la testa all’interno dell’abitacolo e tormentare una leva. Il sedile in pelle ruota verso il volante rivestito di cuoio nero fino alle razze e fanno comparsa sui sampietrini, una dopo l’altra, due paia di gambe, chilometriche e perfette.
   Richiusa la portiera, le due donne si sistemano una alla destra e l’altra alla sinistra dell’uomo. Lo prendono sotto braccio e s’avviano verso il centro della piazza.
   La rossa dalla chioma riccia e vaporosa abbandona il braccio del suo attempato cavaliere e scatta solitaria incontro alla compagine di piccioni lanciando loro qualcosa che sembrano gradire. Il sorriso le illumina il viso già baciato da quel sole inconsueto, distende le braccia a mezz’aria abbracciando il cielo. Il tepore dei raggi cominciano a intiepidirle le gote, lo so, lo vedo, sono rosee, adesso.
Chiude gli occhi e prende a ruotare su se stessa, due giri con la naturalezza d’una prima diva degli anni ‘60. Dalla mia prospettiva l’avevo già relegata allo stato di dea con tanto di tacco 12, inarrivabile, intangibile, da guardare, ma con le dovute precauzioni.
   Eppure, il vecchio col cappotto cammello, c’era arrivato eccome. Ma io avevo solo 17 anni, e pure incompiuti. Che ne potevo discernere io di siffatte dinamiche.
   La mora dai capelli lunghi, la raggiunge.
La rossa indossa dei pantaloncini color antracite, l’altra, un pantalone di pelle nero, aderente, strettissimo.
Divertite, sembrano giocare. Intentano la prima strofa di Albachiara di Vasco Rossi, si sfilano le pellicce e se le scambiano.
   L’uomo s’accorge che lo spettacolo mi risulta assai gradito. Sembra fare una smorfia che interpreto di soddisfazione, richiama a sé le ragazze e, flemmatico, deposita un bacio sulle labbra di ognuna di loro, prestando cura che il tutto fosse nella mia più pregevole prospettiva.
   Le abbandona alla loro danza e s’avvia verso i gradini, verso di me.
   Me lo ritrovo seduto a un metro scarso. Gli anelli neanche si contano, e su entrambe le mani. Una catenina d’oro massiccio gli adorna il collo abbronzato, perdendosi poi tra il petto villoso e i primi due bottoni della camicia sbottonata.
Gli fisso le scarpe. Le classiche anni 20 da gangster bianche e nere. Costose, di qualità artigianale. Era la seconda volta che le vedevo.
La prima, ne Il Padrino di Francis Ford Coppola. Le indossava Sonny, Santino Corleone, il fratello maggiore di Michael Corleone, Al Pacino.
   Con la coda dell’occhio lo scorgo ruotare la testa nella mia direzione, ed era la seconda volta; come quando qualcuno freme per dirti qualcosa, ma tituba. Ma quel tizio non aveva affatto l’aria di uno che titubasse,  e capii solo dopo che in realtà, egli mi stesse solo studiando.
   Compie il gesto di avvicinarsi, ma è solo l’appiglio per iniziare una conversazione, il sedere rimane pressoché al suo posto.
   << A moré, te piàceno ? >>, mi dice con voce rauca, esattamente la voce che osservando la sua figura immaginavo gli si addicesse.
Avevo capito perfettamente la domanda, ma mi sentivo imbarazzato e feci finta di non capire.
   << In che senso ? >>
Ma lui non se ne cura e prosegue diritto.
   << Te le voi comprà ? >>
Abbasso lo sguardo, un gesto di stizza. E’ rozzo, volgarmente ricco, ma mi viene spontaneo dargli del lei, per reverenza anagrafica, suppongo.
   << Ma che dice… >>, gli dico, sfoggiando un ghigno che palesava disagio.
Il tizio tira fuori dalla tasca un fermaglio d'oro deformato dalla miriade di banconote che tratteneva, e ne sfila una da centomila.
   << A moré, le donne vere non so’ come le donne dell’artri, non so’ pe’ tutti, si le voi, comincia a mette i sordi da parte… Tie! >>, avvolge su se stesso il pezzo da cento e me lo infila nella tasca davanti del giubbetto di jeans, di fianco all’uniposca.
   Ero ancora più confuso di prima e poi non mi piaceva quando mi chiamavano "moro" o "moretto". Il primo istinto fu quello di rifiutare sonoramente, ma fui raggiunto da  due buffetti sulla guancia con il dorso della mano che mi lasciarono interdetto. Agitò un braccio e indirizzò un gesto alla ragazza coi capelli rossi.
   << Vedi moré, le donne so’ nate pe’ rompe i cojoni, je vai bène quanno pare a loro, te stressano e poi te dicheno che so' mestruate e che devi da capì. Alla fine sei sempre tu quello che nun capisce, hai capito ? C’è sempre qualcosa che nun je va bène… >>
La dea rossa ci si paventa davanti. Sorridente. Contagiosamente sorridente.
   << Stai a véde, moré ? … Che te pare una come l’artre, questa ? >>.
Nonostante si sia all’ombra, le guance, me le sento in fiamme.  Mi scopro fin troppo ammaliato dal suo viso.
Leggere efelidi le contornano il nasino dissolvendosi sulle gote, occhioni del colore del mare di Sperlonga ammiccano luminosi e impavidi e teneri. Linee conturbanti delineano labbra scarlatte, lascive e tumide.
   L’uomo si alza in piedi, prende la ragazza per una mano e la induce a fare un giro completo su stessa.
   <<  A moré, hai visto che culo, che tette, che stacco de coscia… E quanno le trovi tutte ‘ste cose su una sola! Femmine così il mestruo nun ce l’hanno mai. Quanno la matina me arzo dal tre piazze, me le trovo là, profumate, me le rimiro cor culo ar vento e me dico “cazzo, è buon giorno!” >>
Prende fiato e continua: << E non è mica finita qua, senti senti, a more’... A Giulia bella, dì a ‘sto moretto quanto lo ami er papi tuo... >>
  La voce della ragazza è piacevole, ma con un accenno infantile. E adesso conoscevo anche il suo nome.
   << Ti amo da impazzire, Dandy! ... Dan-dy! Dan-dy!! >>
   << A Giulia bella, dì a ‘sto moretto chi è er più grosso scopatore der monno! >>
   << Ma sei tu, Dandy ! ...Dan-dy! Dan-dy!! >>
   La faccenda cominciava ad arrivarmi chiara. E più la ragazza parlava e più scemava il suo fascino. Era bella da tremare, lo confesso. Ma avrei preferito che non parlasse. Ci sono persone che nel silenzio danno il loro meglio, ecco, Giulia era senz’altro una di queste.
Il Dandy estrasse due carte di credito dal portafogli e le porse alla ragazza.
   << Tiè bella der Dandy, annàte a fa’ shopping, comprateve er negozio, e ridete… Ridete… Ve vojo vedé ride! >>
   << WoW, Dandy! Ma prima voglio un grande gigantesco gelato al cioccolato con una montagna di panna! >>
   Giulia gli si avventa al collo, lo stropiccia, lo bacia, dà un bacio sulla guancia anche a me e giubilante corre sui tacchi verso l’amica al centro della piazza. Su una cosa ero d’accordo con quel Dandy, più la guardavo, più mi sentivo sereno. Giulia, in quel momento, era  l’immagine suprema della spensieratezza.
   << Hai sentito, moré ? Hai capito ? Si da granne voi èsse felice, devi da fà come me, “paghi e te levi er pensiero”. Senza troppi cazzi. Ce lo sai che ar maschio ce piace èsse piàto p’er culo se se tratta d’orgojo. Pago, e so’ er mejo maschio, er più bello, er più forte, er numero uno… So er Dandy!  Hai capito, moré ? 
Aricordate sto nome, Er Dandy! >>
   Forse ero troppo giovane per comprendere quell’ottica, forse troppo pulito, forse troppo lontano da quella ricchezza e quel mondo che m’ostentava davanti.
   << Si, ho capito. Ma a che serve, se poi è tutto falso, io non la voglio una donna che sta con me solo perché le offro una vita agiata e soldi a iosa! Io voglio una donna che stia con me perché mi desideri e mi apprezzi per quello che so essere. >>
   Mi era salita la rabbia e il tono della voce mi si era elevato senza volerlo. Mi sentivo pungolato su ciò in cui ho sempre creduto.
   << A moré, tojeme na curiosità, ma a te, che te piace ? >>
Sono sempre stato per le cose semplici, per i dettagli. Quel genere di cose che non costano nulla, ma se mancano, ti fanno sentire come uno dei tanti, come un numero senza peso che fluttua in uno spazio popolato da altrettanti numeri, altrettanto senza peso.
   << Mi piace chi si ricorda del mio compleanno senza che io glielo abbia rammentato. E che frema, eccitato, dalla sera prima, per essere il primo a volermi dire: "Auguri!".  Ecco, questo mi piace. >>
   << Bravo moré, me piaci. Me ricordi i bei tempi de quanno ero no stronzo qualunque, stronzo e idealista, de quanno ero come te, de quanno nun capivo 'n cazzo e figuramose le femmine. >>
   Si dà due botte con le mani sulle cosce e si rizza in piedi.
   << Dai moré, famo che avemo scherzato, i sogni so sogni, e nun te li vojo rovinà… >>
   Stava per andare via, ma istintivamente gli tocco un braccio per farlo voltare e reagisco di getto:  <<  Io non voglio pagare una donna perché ella mi voglia bene! >>.
   Scoppia a ridere, e io non capisco. Anzi, a me la cosa sembrava alquanto seria. Importante.
Mi guarda fisso negli occhi.
   << Si, moré. Er modo ce sarebbe. La voi na donna che te dice le stesse cose che dicheno a me e senza pagà ? >>
   << Certo che la voglio, e sono certo che l'avrò! >>
   << E allora vai, trova la più bella fica che t’aggrada e… Falla innamorà de te. E’ questo er trucco. >>
   Ah, be’, il discorso filava. Ma non mi sembrava nulla d’eccezionale. Era come aver scoperto l'acqua calda.
   << L’amore può tutto. Quando sei innamorato e guardi con gli occhi dell’amore è tutto bello. >>
   Di nuovo la sua risata che adesso cominciava a starmi sui nervi. E ancora una volta ne ignoravo i natali.
   << A moré, è mejo che me ne vado perché sei indifendibile. Vabbè, famo pure che la trovi e la fai innamorà come na pazza. Ma er problema te rimane. Perché lei te dirà pure che sei er mejo de qua e sei er mejo de là, ma er dubbio ce l’avrai sempre. E chi te lo leva quello. Nun saprai mai se te lo stà a dì perché lo ritiene vero o perché nun te vole fà soffrì… >>
   Mi rabbuio. Chino il capo e prendo a fissare lo zaino, ma fosse stata qualsiasi altra cosa, sarebbe stato lo stesso. Il Dandy non m’era affatto simpatico, ma non aveva del tutto torto. Una pioggia di pensieri mi si dimenavano nella testa, e francamente, nessuno di essi mi piaceva.
   La Standa stava aprendo, ma a me era passata la voglia. Anche il sole era sparito. Avrei solo voluto essere già a casa, a letto e con le cuffie a spararmi "The Unforgiven" dei Metallica dritto nelle orecchie per non pensare a nulla, Dandy in primis.
   Da lontano sento per la terza volta l’odiosa risata schiattata. Alzo il capo, lo cerco e lo vedo mentre accompagna con la mano, una alla volta,  il fondo schiena delle due donne all’interno della sua Bentley.
Si dà una regolata al cappello, poi mi guarda.
  << A moré! Stai contento che c’ho er trucco pure pé questo! Voi sapé che devi da fà dopo che l’hai fatta innamorà pé nun ce avé più er dubbio  e  pé créde a tutto quello che te dice ? >>
Lo guardo fisso, imbambolato e annuisco col capo.
Mi sorbisco per la quarta volta quella risata inconsulta da ebete.
   << Innamorate pure Tu ! Questo devi da fà… Ciao morè, er Dandy te salutant! >>
  
   La Bentley s’era già avviata. Prima di scomparire oltre il curvone dà due colpi di clacson. Come un riflesso spontaneo, una mano mi si agita nell’aria. Non seppi mai se fossero per me. Come del resto non seppi mai più nulla del Dandy.
   Sapevo solo che mi era venuta voglia di gelato. Un gigantesco gelato al cioccolato con una montagna di panna.



M.
(L’uomo dei difetti…)

 
 
 

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LA MIA PICCOLA LUCE: L'ULTIMO VIAGGIO.

 La mia piccola Luce, 25 Agosto 2014


 Ciao piccola Luce,


ti scrivo queste poche righe perché… Ne ho bisogno.
Perché piangere davanti a questo schermo fa meno male che fissando il soffitto. Perché se sto qui mi tengo lontano dai balconi e dalle finestre che danno sul grande campo incolto sottocasa.
   E ti vedo scodinzolare lì in mezzo, felice, perché sapevi che non appena a casa ti avrebbe aspettato lo stecchino al salmone che adoravi. Come ogni mattima, come ogni sera. Come ieri mattina. Come mai più.
   In ufficio dormivi sempre. Tuttavia, bastava il minimo rumore perché tu abbaiassi a chiunque e non solo agli sconosciuti, come a voler per dire:
    << Anche questa è casa mia! >>, poi tornavi a ronfare sul tuo cuscinone, e sembravi una regina. Anzi: Eri la regina. E lo sarai sempre perché il vuoto che oggi m’appartiene non l’avevo messo in conto. 
  
Pensavo che dopo aver provato la più terribile delle perdite, il dolore per aver perduto un animale fosse qualcosa di gran lunga meno intenso, di blando addirittura.
E invece…
   Sono i ricordi a rendere lancinante un fendente o a far sì che certi lucciconi narrino gioia anziché dolore.
   Sei stata la prova che l’(A)more incondizionato, esiste. E che prima di averti io ero uno stolto e non capivo l’amore degli altri per gli animali e non capivo neanche perché talvolta piangessero, si disperassero, vedendoli star male. Tante cose non capivo.
Io ero cieco. Ma oggi vedo.

 

 
So che ti ritroverò un giorno.

Massimiliano 

 

AL VENTUR LERCIUME...


T
alvolta
 getti l'ancora e ti soffermi a riflettere sulle vicissitudini della vita, anche le meno tangibili...
Talvolta ti fai un'idea di una persona già il primo giorno, e dentro di te vorresti fosse sbagliata...
Tenterà di convincerti di essere diversa da come tu la vedi... E provi a crederle...
E' anche giusto farlo.

Tuttavia, a ogni piè, capita, fosse anche dall'imposta più tetra,  che la nuda verità s'affacci spavalda ad illuminar ragione... 

E ti rendi effettivamente conto di chi hai avuto davanti.
Però, stavolta, ironia della sorte, la delusione sarà tutt'altro che longeva, non ne rimarrai stupito...
In fin dei conti, lo sapevi già.
 

M.
(L'uomo dei difetti...)
 

[Post Scriptum]
Per i graditi ospiti al mio umile desco, ho sintetizzato, in un aforisma a mo' di promemoria, crudo e non meno illuminante, la digressione di cui sopra.
"Al ventur lerciume l'uomo fu forgiato da quel senno,  che poi,  fu il (P)rimo."

 

DALL'ALTO VEDI IL MONDO, DAL BASSO VEDI IL TUO.

Dal basso vedi il tuo, di mondo.

Ho sempre sceso le scale di corsa.
Le ho sempre viste come l'ostacolo ultimo tra me, i miei affetti, e la strada.
Un ostacolo blando. Un  connettivo pervio, da lasciarsi alla spalle il prima possibile.   E con la frenesia di chi,  alla stazione,  è sempre in ritardo.

Ma... Stamane no.
Ho percorso i gradini con la velocità dell'uomo, che dalla strada, non s'aspetta nulla di buono. 
E per questo la rimanda.
E per la prima volta ho ricavato del tempo da dedicare alla riflessione anche nell'unico luogo che da sempre avevo destinato al transito, alla zona franca, al canticchiar senza pretese.
Dall'alto vedi tante cose, ed io non lo nego.
Tuttavia, ciò che realmente vedi, è il mucchio.
Non riesci ad apprezzarne le differenze, a coglierne i dettagli.
E' dal basso che vedi ciò che accade intorno e ti rendi davvero conto della piccola grande verità.
Quando tu stai fermo, qualsiasi sia il tuo stato d'animo, il mondo intorno a te, si muove.
C'è chi non ti pensa proprio... E va veloce.
C'è chi apparentemente ti vuole bene... Eppur si muove.
In fin dei conti, quello che ha scelto di star fermo, sei tu.
Quando ti senti solo, sei solo.
Quando hai il minimo dubbio,  allora, non ci sono più dubbi.


M.
(L'uomo dei difetti...)

 
 
 

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