Creato da vittoriozacchino il 04/10/2014
Storia di Galatone e del Salento

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CASTELLO CARLO V PRECISAZIONI »

ANTONIO GALATEO A GALLIPOLI

Post n°1 pubblicato il 04 Ottobre 2014 da vittoriozacchino

Vittorio Zacchino

 

ANTONIO  GALATEO  A GALLIPOLI  CINQUECENTO ANNI FA TRA SOLITUDINE, LAVORO, NOSTALGIE, MALUMORI, RISENTIMENTI.

 

Il penultimo soggiorno esistenziale di Antonio Galateo (Galatone 1448 – Lecce 1517), prima che la nera parca lo ghermisse, il 12 novembre 1517, a Lecce, nella sua casa sita  nell’odierno Corso Vittorio Emanuele,tra piazza duomo e la chiesa del Rosario, che di lui custodisce  il  cenotafio innalzatogli, nel 1788,  dalla pietas di Michele Arditi, fu l’amata Gallipoli.  Vi si era ritirato, verosimilmente, dopo il ritorno dalla visita romana del 1512 al pontefice  Giulio II.

Dopo la morte della moglie, Maria Lubelli, il nostro umanista, che a Gallipoli aveva già risieduto durante  la sofferta adolescenza, con la madre Giovanna d’Alessandro, e le sue quattro sorelle, aveva scelto di tornarvi a dimorare e ad esercitarvi la professione medica. Godeva qui, inoltre, dell’affetto della figlia maggiore Isabella e del genero Alfonso Jurlandino (Orlandino).

La scelta di questa dimora a Gallipoli  doveva essere stata motivata dal bisogno di vivere in pace e lontano dai morsi dell’invidia di canes palatini e fratacchioni spie, annidati così a corte come in Lecce, e da motivi di salute. A Pietro Summonte, destinatario della Callipolis Descriptio, datata 12 dicembre 1513, Galateo rivela, infatti, che l’aria di Gallipoli, mentre è  nociva ai tisici, agli emottoici ,a coloro che soffrono di grave consunzione e alle persone deperite”, non escluso  l’amico Sannazaro, è “salubre per gli altri e specialmente per il Galateo che è bene in carne”, e gli fa bene “assai più di quella di Galatone dove sono nato, o di Nardò dove ho studiato, o Lecce dove ho abitato a lungo”. Aggiungendo che sarebbe contento di potervi morire, nonostante il detto, “noi sappiamo dove siamo nati, ma nessuno sa dove dovrà morire”.

La descrizione di Gallipoli, come noto, è un racconto corografico all’ex sodale Summonte della città bella da cui si dice ammaliato, della sua storia antica e recente, dei suoi uomini, delle sue donne, della civile convivenza e della perfetta eguaglianza, la isonomia, che vi regna tra gli abitanti, in certo senso l’immagine di una città idealizzata, un misto di repubblica di Platone e di città celeste di S.Agostino, in cui si vive bene e in armonia, e dove  si seguita ad avvertire un quid graecanicum, il persistere del sentimento greco, dei buoni costumi, della educazione a modo.

Con l’eroismo degli uomini  e la castigatezza delle donne, egli elogia la forma di padella (sartaginis) della città, la particolare struttura urbanistica, l’ingegnosa distribuzione delle vie e dei vicoli: “Due cose vi sono che possono suscitare ammirazione per le geniali capacità dell’antico architetto che ne è l’autore. Quest’uomo, chiunque sia stato, considerò che il luogo è esposto a venti costanti e perciò la rete viaria non obbedisce ad alcuno schema;anzi, obbedisce, forse, a uno schema ottimo e studiato per la sanità degli abitanti”.

            A Gallipoli Galateo conduce vita tranquilla, trascorre la propria giornata professionale, girando ostiatim per curare i propri pazienti, due volte il giorno,  a pregare in Sant’Agata, o in casa propria, a conversare con gli amici,a farsi cullare dal soffiare del vento, a corteggiare discretamente la bella Nifi, una femminista avant lettre, cui piaceva ascoltare le dotte conversazioni serali, e assai più ricevere un pieno di complimenti, e sentirsi dire dal caro vecchio :”Se Venere volesse cercare l’amore tra i mortali / non credo potesse assumere altro aspetto che il tuo”.(In Nifim callipolitanam).

Ovviamente Gallipoli è anche un posto adatto per studiare e il nostro umanista, nel biennio 1513-1514, oltre la Callipolis descriptio ( epist. XXXVI) ha puntualizzato la sua posizione sulle lettere, togliendosi dei sassolini con la celebre Vituperatio Litterarum (epist.XXXIII) e col De suo scribendi genere(epist. XXXIV),  affrontando

 i grossi  nodi di un umanesimo problematico e informale e di  grande impegno etico e culturale, nodi che hanno riacceso in lui nostalgie umbratili, ma pure riattizzato dissapori e ricordi spiacevoli. Nella solitudine, o meglio isolamento forzato, e a dirittura esilio (“Callipoli latitans”) tornano a galla insopite questioni, frustrazioni e polemiche rabbiose sui doveri della nobiltà, e sul primato delle lettere sulle armi o viceversa,che lo vedono impegnato in un sottile duello con l’amico e sodale Belisario Acquaviva duca di Nardò.

 Nella Vitupertio Litterarum, denunciando apertamente, non già le lettere, bensì i letterati venduti al potere per ragioni di carriera, e la responsabilità dei signori nell’elevare i malvagi ed ignorare i galantuomini indigenti, metteva a nudo, senza giri di parole, il proprio caso di medico confinato a Gallipoli :”io ritengo che quanto accade accada non senza colpa e vergogna dei cattivi tempi e dei nobili signori ,che in vane spese sperperano tutte le loro ricchezze e i beni , per non dire il sangue dei loro sudditi e lasciano che il Galateo se ne stia in esilio ,a questa età, al tramonto della vita, che si tormenti ogni giorno, senza posa, per una misera e vile mercede (mi vergogno di dirlo) e per il pane quotidiano, e che viva andando di porta in porta, cosa che altro non è se non mendicare”.

E nel De suo scribendi genere, con toni forse più accesi e ironici, destinatario nuovamente Summonte: “ So bene che non pochi uomini dotti si sdegneranno, sentendomi detestare ,esecrare, vituperare le lettere. Ma se qualcuno di essi terrà conto delle mie intenzioni e non delle mie parole, comprenderà che io apprezzo molto le lettere proprio quando ne parlo male.(…..). Considera che io non odio le lettere , bensì la loro fortuna. Infatti non vorrei vivere se dovessi vivere senza il conforto delle lettere(“Nollem vivere si sine litteris viverem”).Ho semplicemente voluto emulare  l’incendiario Eratostene, il quale, pur essendo uomo da nulla, e tuttavia avido di fama e di gloria, si rese memorabile appiccando il fuoco al tempio di Diana Efesia, ed eternando così il proprio delitto (At si ea quae dixi non placent, puta me secutum fuisse exemplum Eratosthenis illius, qui cum nulliuus esset pretii, cupidus famae et gloriae, quod virtute non potuit, scelere memoriam sui aeternam facere tentavit ).

Questa l’immagine viva di Galateo nell’eremo sereno della Gallipoli del 1514, dove, pur col sopraggiungere del male agli occhi, che tre anni dopo lo condurrà alla tomba, vive la propria vita operosa ed onesta, curando i corpi  e le anime, e compie la propria missione alta, non dilettandosi  di questioncelle grammaticali al modo di Cicerone, bensì costruendo concretamente in periferia  l’uomo nuovo  e  la società  del Rinascimento.

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