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lo stile d'investimento Value

Post n°1 pubblicato il 10 Febbraio 2009 da Concencao
 
Foto di Concencao

grazie all'ausilio di questo Blog vorrei diffondere una teoria di investimento  che ha dimostrato col tempo la sua impeccabilità: il "Value Investing".
Inizialmente formalizzata alla Columbia University da Benjamin Graham e David Dodd, docenti di Security Analysis, la teoria del Value Investing è stata poi sviluppata prima da Roger Murray e ora, appunto, da Bruce Greenwald, che sul tema tiene anche un corso nell'ambito del MBA della Columbia Business School. Grandi investitori di Wall Strett, tra i quali Warren Buffet e Mario Gabelli, allievi rispettivamente di Graham e Murray, hanno dimostrato, a suon di risultati talvolta strabilianti, la validità della teoria nella sua applicazione pratica.
L'idea di fondo è quella di valutare le aziende con una metodologia diversa dalla tradizionale tecnica del valore attuale dei flussi di cassa (Discounted Cash Flow - DCF), al fine di determinare con minore incertezza il valore reale del corrispondente titolo azionario e confrontarlo con il prezzo di mercato.
La valutazione con DCF vuole che il valore dell'azienda sia dato dalla somma dei flussi di cassa disponibili in futuro per gli investitori, attualizzati al costo del capitale medio ponderato (WACC). Il valore così calcolato è soggetto a grande variabilità per l'incertezza nelle ipotesi alla base del calcolo, incertezza tanto maggiore quanto più esteso è l'orizzonte temporale considerato. Se anche verificati attraverso le tradizionali tecniche alternative di valutazione (analisi con multipli, analisi di sensitività, ecc.), i risultati basati su DCF - è l'obiezione dei sostenitori del Value Investing - rimangono soggetti ad una inaccuratezza considerevole. Infatti, un confronto dei risultati attraverso tecniche che, pur diverse, sono basate sul medesimo fondamento (la previsione dei flussi di cassa futuri), equivale ad evidenziare il problema - l'incertezza del risultato - ma non a risolverlo.

La metodologia del value investing
La metodologia del Value Investing si basa su un approccio profondamente diverso, basato sulla individuazione di tre componenti: il valore degli asset (Assets Value), il valore dei margini allo stato attuale delle cose (Earnings Power) e il valore della crescita attesa (Growth Value), che può e deve essere preso in considerazione solo quando sia possibile una previsione "robusta" della crescita stessa. Con l'analisi di queste tre misure si può definire il valore "vero" dell'azienda (intrinsic value), da confrontare, per decidere se procedere o meno all'acquisto, con il prezzo di scambio in borsa, che molto spesso rispecchia più l'andamento volatile dei mercati che non la "sostanza" che rappresenta.
La tecnica si basa dunque su elementi poco confutabili: valore di libro degli asset (attività nette) da bilancio, sui quali sarà eseguito un "reality check", e valore dei margini, calcolati sulla base dei profitti attuali, non su ipotesi sul futuro. La previsione di crescita, che nelle applicazioni del DCF fa spesso la parte del leone, mascherata nei cash flow futuri o in multipli poco intelleggibili, qui ha solitamente un peso molto minore, e resta comunque molto più esplicita.
Una strategia di investimento a lungo termine
I "value investor" non sono degli speculatori di breve periodo, non danno alcun peso ai dati storici di andamento del titolo (prezzo, volumi di scambio), né traggono conclusioni sull'andamento futuro di un titolo a seguito di fattori macroeconomici come tassi di interesse, tassi di scambio, andamento della disoccupazione. Soprattutto, i "value investor" non si fanno affatto influenzare dalle opinioni degli analisti e dalle euforie del mercato, ma valutano l'opportunità d'investimento in base al confronto del valore intrinseco di un titolo con il suo prezzo corrente di mercato.
Ma come fare per diventare "value investor"? O, più semplicemente, come individuare i titoli a valore intrinseco alto relativo al prezzo di mercato (value stock)?
I passi da seguire sono tre:
(1) definire i criteri per creare un campione di aziende da valutare, ovvero dei titoli che possono avere le caratteristiche di un value stock;
(2) calcolare l'Asset Value, gli Earnings Power ed il Growth Value;
(3) analizzare la differenza dei valori così ottenuti ed eseguire una "due diligence" dell'azienda per definire quale sia la sua posizione competitiva, ovvero per determinare se goda di un vantaggio competitivo sul mercato (un franchise).

(1) Per individuare un campione di aziende potenzialmente valide, occorre analizzare più indicatori. Innanzi tutto, si devono scegliere aziende con caratteristiche positive in termini di redditività (ad esempio scorrendo indici come ROE, ROIC) e di crescita degli utili (Earnings per Share - EPS), del fatturato, degli assets, dei margini operativi. Dato però che le aziende che eccellono su questi parametri sono normalmente aziende vincenti e ben conosciute, sarà difficile trovare titoli sottovalutati. Occorrerà dunque valutare tra questi titoli quelli con indici come P/E, Price to Cash flow, Price to Book particolarmente depressi, specialmente rispetto a titoli analoghi nel settore. Questo è spesso vero per aziende con bassa capitalizzazione, a volte create da spin-off di grandi gruppi o appartenenti a settori poco attraenti e scarsamente coperti da analisti e mass-media.
(2) Il secondo passo è il calcolo del valore intrinseco dell'azienda attraverso la valutazione delle sue tre componenti e il confronto tra i risultati ottenuti.

Assets Value. Nell'ipotesi che l'azienda continui ad esistere in futuro (a volte può essere interessante invece studiare il titolo di un'azienda sulla via del tramonto, ed in tal caso il valore dell'azienda è pari a quello di liquidazione), si deve calcolare il costo di riproduzione degli asset, che equivale all'investimento necessario per "clonare" l'azienda, replicandone esattamente gli asset per competere alla pari, con gli stessi prodotti, marchi e strategie nei medesimi mercati. A tal fine si deve correggere il valore di libro di ciascuna voce dello stato patrimoniale per ottenere il "costo di rimpiazzo" dell'asset sottostante, aggiungendo alla valutazione il valore di asset particolari quali licenze, marchi e il valore del know-how della ricerca.
Earnings Power. Occorre riformulare il conto economico dell'azienda per arrivare ad un valore equivalente al cash flow disponibile per gli investitori, assumendo crescita nulla. Il valore degli Earnings Power è dato dal valore degli Earnings così determinati attualizzato al costo del capitale (WACC).


Growth value. E' l'elemento più difficile da valutare, per l'incertezza delle previsioni. Inoltre la crescita delle vendite o degli utili aggiunge poco al valore intrinseco dell'azienda se questa si trova in un mercato competitivo privo di barriere all'ingresso. Senza vantaggio competitivo, infatti, il valore della crescita equivale al costo necessario per finanziarla, poiché il margine sui nuovi potenziali ricavi non può superare il tasso di ritorno sull'investimento, e quindi il crescere, in sé, nulla aggiunge al vero valore dell'azienda. La crescita genera vero valore solo se produce ritorni in eccesso al costo del capitale aggiuntivo richiesto, cosa che è possibile solo in un franchise protetto, ossia quando l'azienda gode di un vantaggio competitivo sostenibile.
(3) Il terzo passo è costituito da un'analisi che permette non solo di individuare eventuali punti di debolezza nel ragionamento e di rivedere di conseguenza le stime, ma anche di capire l'origine della differenza fra il valore intrinseco e quello attribuito dal mercato.

Più in particolare, confrontando l'Asset Value con l'Earnings Power si determina il valore aggiunto creato dal management dell'azienda: se il primo supera il secondo è chiaro che si sta distruggendo valore, cioè che il management non sta mettendo a frutto le potenzialità degli asset. L'azienda sta lavorando, ad esempio, in eccesso di capacità produttiva o in assenza di vantaggio competitivo. Se il valore degli Earnings Power coincide all'Asset Value, siamo nello scenario di assenza di vantaggio competitivo e di perfetta competizione: l'azienda non è in grado di remunerare il capitale oltre il tasso di ritorno su investimenti di pari rischio. Infine, quando il valore degli Earnings Power è superiore all'Asset Value, l'azienda gode di un vantaggio competitivo. La differenza tra i due valori fornisce una valutazione del franchise dell'azienda, il cui management riesce ad ottenere un ritorno sugli assets superiore a quello dei concorrenti. Il franchise per esistere deve essere sostenibile a lungo termine, in modo da garantire anche in futuro ritorni superori al costo del capitale, e quindi anche un'eventuale crescita "remunerativa".

Il franchise
Un'azienda ha un franchise quando esistono barriere all'ingresso che allontanano potenziali concorrenti o che fanno sì che nuovi entranti lavorino in condizioni di svantaggio competitivo. Il vantaggio deve essere identificabile e strutturale. Tale vantaggio, secondo lo schema utilizzato dal Prof. Greenwald e in generale dai "Value Investors", deriva esclusivamente dalla presenza di almeno uno dei seguenti quattro fattori:
(1) protezione data da brevetti o licenze che rendono difficile o impossibile l'entrata di concorrenti (ad esempio licenze governative per trasmissione dati, o licenze telefoniche);
(2) vantaggi dovuti alla capacità dell'azienda di produrre a costi inferiori a quelli dei competitors, ad esempio nel caso di tecnologie produttive particolarmente efficienti e difficilmente riproducibili, o vantaggi sul costo del lavoro o del capitale;
(3) clientela "captive", ossia "fedele" all'azienda per abitudine all'acquisto (esempio: Coca Cola) o per alto costo di ricerca di alternative al prodotto o di costo di cambio di servizio/prodotto (esempio: Microsoft, assicurazione auto);
(4) presenza di Economie di Scala (la situazione in cui all'aumentare della quantità prodotta diminuisce il costo unitario di produzione) accompagnata però da una base clienti captive. Infatti, solo se accompagnate da vantaggi lato domanda, le Economie di Scala si possono tradurre in vantaggi di quota di mercato, costi inferiori e margini superiori. Attenzione però: che i vantaggi di costo (dovuti a tecnologie particolari, efficienza produttiva o particolari licenze o brevetti) hanno vita breve, perchè sono facilmente replicabili. Occorre dunque che l'azienda non solo si distingua nel contenimento dei costi e nel mantenimento dei clienti, ma anche che sia capace di innovare e acquisire nuovi clienti, per mantenere la captivity e difendere la sua quota di mercato. Un tipico esempio di customer captivity unito ad economie di scala è Intel.
Riassumendo, dall'analisi dei prodotti e processi dell'azienda e del mercato in cui opera, in termini di clienti e concorrenti, si può definire quale sia la sua posizione competitiva e generare un'ipotesi sull'esistenza e solidità di un franchise. Quest'analisi "sostanziale" deve essere confrontata con i risultati della valutazione economica, per determinare la solidità del valore dell'azione che si è determinato. In particolare, come si è già accennato, il valore della crescita può essere considerato se e solo se l'azienda gode di un vantaggio competitivo durevole.

Un'interessante applicazione di questa analisi fu presentata dal Prof. Greenwald per "smontare" la tesi di chi vedeva inarrestabile la crescita della New Economy. Nel bel mezzo del più trascinante degli entusiasmi, il Greenwald si faceva beffe di chi costruiva castelli in aria sui profitti delle "dotcom" e di chi ne giustificava i multipli di borsa con una crescita più che esponenziale disarmandoli con la semplice domanda: "Come farà quest'azienda a continuare a sostenere questi ritmi di crescita ed a realizzare i margini previsti? Quali sono i vantaggi competitivi di questa azienda? Chi impedisce ad un altro investitore di crearne un clone ed aggredire lo stesso mercato, se i margini si mantengono tali? Quanto può durare il suo presunto franchise in assenza di veri punti di forza che la distinguano dalla massa?". Ebbene, alla sua spietata analisi resistevano allora ben poche aziende, e sappiamo tutti ad alcuni mesi di distanza come e' andata a finire…

In conclusione, quando comprare un titolo? Come abbiamo visto, occorre confrontare il prezzo corrente del titolo in esame con il valore intrinseco stimato. Ma attenzione: un Earnings Power maggiore dell'Asset Value non equivale necessariamente ad un "buy". Se si tratta di un'azienda grande e nota, il prezzo di mercato sarà probabilmente superiore al vero valore del titolo. Se invece il titolo e' poco noto, il settore poco "di moda" e la capitalizzazione bassa sarà facile che il prezzo di mercato sia inferiore al valore intrinseco del titolo, e, quindi, che si giunga ad un vero "buy" secondo la teoria. Infatti, prima o poi qualcuno, per esempio il management stesso, scoprirà il valore nascosto e la domanda per il titolo salirà, aumentandone il prezzo di scambio.
Ma per essere dei "value investors" di successo, raccomanda il Prof. Greenwald, occorre tener fede ad alcune regole di base: avere un'ottica di investimento di lungo termine, applicare la tecnica in maniera metodica, tenere costantemente d'occhio il settore e le caratteristiche di competività dell'azienda e del mercato e, infine, avere molta pazienza.
Se il mercato non offre al momento dei buoni affari, meglio aspettare fino a che non si presenta l'occasione giusta. Un esempio? Warren Buffet in un momento della sua carriera restituì parte del capitale ai soci per mancanza di opportunità nel mercato, che allora lui stimò essere sopravvalutato in larga misura. E se lo ha fatto Warren Buffet che in materia fa scuola…

 
 
 
 
 

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