Viburno rosso

L’obsolescenza programmata, ovvero quando il fashion diventa un affare squisitamente politico


“Ci  rivediamo presto!”L’ aveva promesso l’anno scorso, prima di salutarci,  e così è stato.Serge Latouche, il  teorico della decrescita felice, è tornato a raccontarci della sua idea di mondo. Così utopistica e visionaria da sembrare ragionevole e possibile. Stavolta ha parlato di obsolescenza programmata, che è il termine con cui in economia si indica il fatto che le merci siano progettate per durare un tempo decisamente inferiore a quanto il progresso tecnologico oggi consentirebbe loro di sopravvivere. Si tratta di una pratica introdotta nel secolo scorso per sostenere il mercato in epoca di recessione e poi utilizzata in maniera sistematica per incentivare il consumo di beni oltre alle reali necessità dei consumatori.Cosa sia l’obsolescenza programmata lo sa bene l’economista e il pubblicitario, ma lo intuisce anche il povero consumatore, la cui lavatrice esala il suo ultimo giro di centrifuga esattamente il giorno dopo della data di scadenza della garanzia. Del resto questa storia di regolare artificiosamente  l’usura delle merci non è che sia ‘sta gran trovata: se ci pensiamo la moda pratica lo stesso meccanismo da che esiste l’uomo, anzi, la donna, inducendola a disfarsi di oggetti ancora perfettamente funzionali in nome di un’obsolescenza non reale, ma solo percepita.   Con tutto quello che poi ne consegue in termini di sprechi e produzione di rifiuti.Insomma, a me questi ragionamenti mi trovano perfettamente d’accordo. Anche perché mi restituiscono allargata una visione della realtà che coincide perfettamente con quello che pure io vedo passare dietro alla piccola finestrella da cui osservo il mondo, io, che non sono teorica di decrescite e non ho certo un’alta formazione economica.E poi, lo ammetto, questi ragionamenti mi convincono anche per una motivazione squisitamente privata. E qui abbasserei il tono della voce, se non foste veramente in due gatti a leggermi, perché sto per confessare qualcosa di cui mi vergogno un po’.   Dicevo che questi ragionamenti  mi convincono perché rivestono di un significato profondamente ideologico la mia insana passione per la moda e l’abbigliamento vintage. L’accessoristica e le scarpe (col cinturino). Le borse e i cappelli anni '30. Le sciarpe di seta e i foulard. Secondo un gusto che se ne frega delle mode, trascura l’utile e punta dritto ad una sua personale idea di bello.Ecco, dopo aver sentito parlare di obsolescenza programmata, posso finalmente smetterla di vergognarmi quando mi aggiro come una tossica tra i banchi del mercato, scavando alla ricerca del foulard da abbinare al vestitino a fiori. Grazie a questa nuova visione,  non mi sento più affetta da schizofrenia ideologica: posso agevolmente conciliare il mio animo fashionista con il mio credo marxista leninista.Perché io non consumo, ma riciclo. E perché è più bello percorrere la strada della decrescita felice con una borsa intonata alle scarpe.