Il Sole di Stagno

"Palude? Il centro delle storie reflue di Pennacchi"


Avevo già letto “Palude (Donzelli, 1995)” dello scrittore di Littoria-Latina Antonio Pennacchi, che allora aveva il sottotitolo, “Storie d’amore, di spettri e di trapianti”. Era stata una folgorazione. Ma l’avevo letto da un’amica e non ne possedevo copia. Ora un’altra amica mi ha regalato l’edizione Dalai in commercio “Palude (pagg. 238, euro 17.50)” e me lo sono riletto. Premetto che io ho una simpatia anche per l’uomo Pennacchi che ha veramente fatto l’operaio, che si è veramente laureato, che quando va alle presentazione s’incazza ancora come un operaio anche se ha una cultura umanistica che io sento solida e passionale. Non mi affascina molto – pur essendo io di sinistra – il giochetto fascista? , comunista? , fascio comunista? , che si fa sullo scrittore. Quando leggo i libri io penso alla storia ed alla lingua. E, “Palude”, è proprio, come recita il nuovo sottotitolo Dalai – “Dove tutto ha avuto inizio” – la costituzione repubblicana formale e sostanziale della narrativa pennacchiana. Ci sono autori anche molto famosi e molto letti che basano le loro novelle su storie asfittiche: a Pennacchi, invece, le storie gli scappano dalle mani. La lingua? Quest’impasto alto-basso, popolare-colto, è paragonabile solo ad altri esperimenti letterari: a Camilleri ed al suo vigatese, e se mi permettete – sono anche napoletano – a quell’esperimento linguisticamente fine sul piano del dialetto che ha fatto Pietro Treccagnoli in “Non lo chiamano veleno (Avagliano, 2006)”. Altro non so dirvi, se non che leggere Pennacchi mi fa ridere, piangere e riflettere sul nostro sventurato Paese che ha però anche un popolo lavoratore che capisce e che a volte produce anche collettori di storie, postmoderni Omero.Vincenzo Aiello