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IRAN - La rosa di Hafez - Parte II

Post n°883 pubblicato il 12 Febbraio 2013 da VoceProletaria

IRAN - La rosa di Hafez - Parte II

La troupe di “VisioNando” con interprete a Isfahan

Mujahedin e-Khalk come Al Qaida: terroristi cari agli Usa

Ma il terrorismo di cui si occupa l’associazione delle vittime è quello più scoperto e convenzionale: attentati e uccisioni mirate. 17mila assassinii a partire da pochi anni dopo la rivoluzione, perlopiù gente qualsiasi, artigiani, contadini, maestri, casalinghe, studentesse, ma con più recente predilezione per intellettuali, esponenti delle professioni strategiche, soprattutto scienziati nucleari. E’ una strategia che gli specialisti del Mossad e della Cia hanno insegnato ai nuclei di Al Qaida da disseminare ovunque occorresse un pretesto di intervento, che hanno praticato e fatto praticare in giro per il mondo, dalla Palestina all’Iraq, dall’America Latina ad, appunto, l’Iran. Sanno che non è in gioco il blocco della bomba atomica islamica, ma l’evoluzione di un paese che, grazie al suo sviluppo industriale, all’autonomia alimentare, all’egemonia geopolitica in gran parte della regione di cui costituisce l’asse della resistenza e alla crescente rete di nazioni opposte alla dittatura e depredazione del Nuovo Ordine Mondiale, rappresenta la lacerazione della ragnatela della globalizzazione imperiale. I sicari dei servizi impegnati in questa sanguinaria campagna di terrore diffuso e di eliminazione degli attori dell’emancipazione, sono i Mujahedin e-Khalk (MEK).
Un tempo componente del movimento di massa che ha abbattuto la dittatura, da milizia armata “per la democrazia e il socialismo” si è trasformata, sotto il dominio assoluto della guru Mariam Rajavi, ospitata e sostenuta a Parigi, in un culto esoterico che, non diversamente da sette depersonalizzanti ipernaziste come Scientology, la Chiesa dell’Unificazione del Rev. Moon, o la Falung Gong cinese, fa dei propri adepti strumenti criminali disposti a ogni obbedienza, comprese quelle relative ai rapporti personali. Rifugiatisi in Iraq e operativi contro il proprio paese dal famigerato Campo Ashraf, una cittadella misterica di tipo tibetano, nel corso della guerra con l’Iraq, i MEK, si sono poi arruolati al servizio dell’occupante Usa. La strategia degli assassini seriali contro cittadini qualunque ed esponenti della scienza e della cultura inizia allora. Ricorderete la successione di attentati con il metodo dell’ordigno esplosivo applicato da motociclisti alle’auto che trasportavano scienziati nucleari.

Uno sguardo nella realtà terrificante della manipolazione biopolitica dei propri adepti ce l‘ha offerto dal suo rifugio di Londra, Massud Bani Sadr, cugino di uno dei primi premier dopo la cacciata di Reza Pahlevi e fino agli anni ’90 rappresentante del MEK presso gli Stati Uniti e l’ONU. Imponendogli una dedizione assoluta, ne hanno imposto il divorzio e la distruzione della famiglia, insieme a una vita sotto costante minaccia di rappresaglia mortale. Una rappresaglia già operata contro altri “traditori”, nell’impunità garantita dalla potenza di lobby politiche e mediatiche occidentali, attivissime a Washington, Parigi, Londra, Bruxelles, dotate di forte capacità condizionante grazie a un’incredibile e misteriosa disponibilità di fondi. Ma la conferma de visu del lavoro trentennale di questa banda di killer psicopatici  ce l’hanno data gli incontri, a Tehran, Shiraz, Isfahan, con i congiunti delle vittime e i transfughi dell’organizzazione. Vedove, orfani, famiglie spesso povere, ora assistite dal governo, rimaste senza il sostentamento del marito, del padre, del fratello. Decine di migliaia. I loro boia, nella lista euro-statunitense delle organizzazioni terroristiche finchè operavano con Saddam, da un ordine esecutivo di Obama sono stati cancellati da quell’elenco e restituiti alla dignità di “oppositori democratici del regime”.

Savak, il dono della Cia allo Scià

Lo chiamano Museo Ebrat. E’ uno dei luoghi più agghiaccianti che questo cronista, familiare dai tempi di Dresda con le aberrazioni compiute dall’Occidente nel nome della democrazia, legge e ordine, law and order, come interpretati dai protagonisti della nostra democrazia, abbia avuto la ventura di conoscere. Era la prigione in cui la Savak, polizia segreta dello Scià, rinchiudeva, seviziava, uccideva. Un palazzo circolare di numerosi piani, concepito come cassa armonica per far rimbalzare e potenziare per ogni udito le urla dei torturati. Al centro una vasca che si faceva ribollire di corrente elettrica per immergervi chi doveva “parlare”. Nelle celle gli strumenti e i manichini di tecniche suggerite, dal covo sotterraneo nell’ambasciata Usa, dai tecnici della Cia: corpi martoriati e appesi, mani e piedi dalle unghie strappate, piante e palmi con la pelle strappata dalle frustate, gli annegamenti del waterboarding poi legalizzati da Bush e sanciti da Obama, le finte esecuzioni, le percosse senza fine, gli stupri.

La milizia MEK, neoassunta al servizio di Cia e Mossad e gratificata di sostegno e rispetto da un’opinione pubblica che si vuole lanciata contro  il “cuore iraniano dell’ Asse del Male”, ne perpetua gli obiettivi. Discepola degli stessi che istruirono la Savak,  si può dire classica espressione dell’eterogenesi dei fini dichiarati, non meno di quell’Israele che si voleva nata nel segno del riscatto dalla dittatura e del pionierismo socialista. Su tutto questo non si è sentita una parola mai, né di Shirin Ebadi, fan dei tagliagole salafiti in Siria, né degli affini che, nel 2009, elezione trionfale di Ahmadinejad, presidente più dalla parte dei poveri che dei nostalgici di Scià e saccheggi neoliberisti, dichiarata frutto di brogli mai dimostrati, lanciarono la “rivoluzione verde”. “Rivoluzione” colorata che, con l’intervento dei collaudati strumenti Usa, i Think Tank operativi della destabilizzazione nel segno della “Guerra al terrorismo e per i diritti umani”, contaminò ed espropriò quanti vi volevano
partecipare con onestà d’intenti e rifiuto di strumentalizzazioni esterne. Su quel movimento impresse il suo segno il famoso episodio di Neda Soltan, giovane donna che venne proclamata vittima dei repressori e fu elevata in Occidente a icona della resistenza contro la cosiddetta dittatura dei religiosi. La clamorosa smentita, portata da un video in cui, fotogramma per fotogramma, si scopre la finzione, fu sepolta dalla complice ignavia della professione giornalistica come da noi praticata.

Non c’è bisogno di identificarsi con l’ideologia e la struttura datesi dalla Repubblica Islamica dell’Iran dopo la caduta dello Scià e l’arrivo di Khomeini. Vi si possono rivolgere le critiche che detta il personale convincimento di come gli esseri umani debbano organizzarsi e vivere. Ma se ne devono condividere la difesa della sovranità, il rispetto per una popolazione che trae il suo consenso dalla consapevolezza della sua civiltà e della sua volontà di autodeterminazione. Se ne deve sostenere la resistenza, unitamente alle migliori componenti di un’umanità che rifiuta una  sottomissione che porterebbe all’autodistruzione collettiva e definitiva. Come nel caso del Vietnam, dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, della Siria, delle oltre 70 guerre, cospirazioni e colpi di Stato, che gli Usa, con la mosca cocchiera israeliana, hanno praticato dalla metà del ‘900 in qua, sempre più con la partecipazione dei governi vassalli, quelli che di tali aggressioni sono stati l’oggetto meritano a priori la nostra stima e il nostro appoggio. Anche la nostra gratitudine.

Quello che prevale nel mio ricordo è una gente con tutti i connotati di una civiltà della convivenza  che da noi si va perdendo nel culto indotto dell’individualismo e della competizione: sorriso, pronta amicizia, calore, ospitalità come fosse dire buongiorno, anche per noi che arriviamo con tutto il carico dei crimini e degli errori qui inflitti. Non c’era verso di incontrare famiglie, personalità, autorità, passanti, senza finire davanti a una tavola imbandita, pur non potendoci essere la prospettiva dell’offerta ricambiata. Le disquisizioni, del tutto legittime, sulle qualità e compatibilità con il nostro senso del bene e del giusto dell’ordinamento politico iraniano, le lasciamo ad altri momenti e ad altre analisi. Chi segue questo blog, il nostro lavoro, sa perfettamente quali sono i principi su cui si fonda la nostra Weltanschaung. E’ che, oggi come oggi, trovo seccante fare il grillo parlante nei confronti di chi dal mondo di cui faccio parte non ha ricevuto che sprangate sui denti. E pur si muove.

Il racconto è lungo, ma mi fermo qua. Molto altro lo potrete vedere quando, fra un po’, uscirà il nostro nuovo docufilm. Lo vorrei chiamare, pensando alla metafora della poesia di cui sopra e all’incanto della tomba del suo autore, "IRAN, la rosa di Hafez”. Che ne dite? Se avete idee migliori, fatemele conoscere. 

Fulvio Grimaldi
Fonte: http://fulviogrimaldi.blogspot.it
Link: http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2013/02/iran-la-rosa-di-hafez.html#more

 
 
 
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