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Essere archeologo


Voglio riportare in queste pagine virtuali una testimonianza di un'archeologa che riesce, con le sue parole semplici e appassionate, a farti sentire "l'anima" del nostro lavoro..Un giorno, incontrando alcuni ragazzi di una scuola media, chiesi loro se sapevano chi o cosa fosse un archeologo. La risposta fu immediata e senza esitazione: Indiana Jones è un archeologo! Non fui sorpresa dalle loro parole e continuai nelle domande: perché il personaggio da voi citato è un archeologo? Perché è un esploratore, un cercatore di tesori. A questo punto mi sorse spontaneo un sorriso e mi ritornarono alla mente, in un lampo, i miei sogni di giovane studente, quando decisi di diventare archeologo. Sfogliavo libri con resoconti di scoperte storiche come le piramidi d’Egitto, i tesori di Creta e Micene, i templi della Magna Grecia e della Sicilia e le città sepolte di Ercolano e Pompei. Mi affascinava la bellezza di questi monumenti del passato, ma soprattutto mi incuriosivano le persone che avevano attuato simili scoperte. A volte nelle fotografie vedevo questi “signori” in abbigliamento da esploratore, intenti ad osservare altri individui che asportavano la terra per mettere in luce monumenti, muri o singoli oggetti e pensavo a come sarebbe stato bello fare l’archeologo. Oggi che sono un archeologo, posso sorridere di questo mio sogno di gioventù e dell’idea espressa dai ragazzi, assai simile a quella della maggior parte degli ammiratori di questa professione. Certo, ho scelto di essere un archeologo che opera sul campo, che “scava la terra” per trovare le testimonianze del passato, non indosso sahariana e cappello da esploratore, ma scarpe antinfortunistiche e casco di sicurezza. Chi non mi conosce, e spesso accade, nella migliore delle ipotesi crede che io sia un geometra, solo perché è difficile che in un cantiere ci sia una donna come operaio. Gli archeologi, infatti, non sono esploratori, non viaggiano (tranne rare eccezioni) alla ricerca di tesori, sono piuttosto investigatori che intervengono sulla scena di un “delitto” e raccolgono indizi e dati di un passato troppo spesso sacrificato in nome del progresso. Nella maggior parte dei casi, infatti, l’archeologo opera in situazioni d’emergenza quando, a seguito di lavori edili o di posa di tubature, gli scavi evidenziano resti archeologici sotto il livello stradale o il piano di campagna. L’intervento viene concordato con i funzionari della Soprintendenza Archeologica e solitamente consiste nella valutazione dello stato dei rinvenimenti e, se reputato necessario, nell’ampliamento dello scavo stesso. A questo punto inizia il lavoro, l’indagine vera e propria. L’archeologo non si limita ad asportare la terra per far affiorare i reperti o le testimonianze del passato, ma deve riconoscere e capire la “storia” che ogni strato di terreno racchiude; quindi scava innanzi tutto con la testa e poi con le braccia e con gli strumenti che gli consentono, volta per volta, di distinguere le caratteristiche di ciò che sta indagando. L’archeologo lavora dove ci sono resti archeologici, quindi può essere impegnato in uno scavo all’aperto all’interno di un paese, ad esempio in un cantiere edile, dove a seguito di sbancamenti sono affiorati reperti, o in aperta campagna, dove si posano le tubature di questa o quella azienda di servizi o si effettuano lavori per la realizzazione di strade o ferrovie, ma può trovarsi a operare anche “sotto terra”. Quest’ultima possibilità si verifica nei centri urbani quando si scava per costruire linee metropolitane o si effettuano lavori di sistemazione delle cantine dei palazzi. Stare all’aperto è un aspetto molto bello del lavoro archeologico, ma ha un suo limite: infatti, l’archeologo sa perfettamente cosa significa fare uno scavo in inverno con la temperatura sotto zero, quando due paia di guanti e due di calze non bastano per impedire al freddo di intorpidire il movimento delle dita. In simili circostanze, anche un ambiente poco salubre come una cantina piena di muffa e con un tasso di umidità elevato, potrebbe sembrare il luogo più bello dove lavorare. Non esiste un’attrezzatura specifica per lo scavo e l’archeologo si avvale di strumenti derivati da altre attività. La pala e il piccone, ad esempio, sono strumenti semplici e vengono solitamente utilizzati per lo scavo di depositi naturali o di riempimenti e livellamenti artificiali, perché questi strati, oltre ad avere sovente un discreto spessore, non vengono danneggiati. Sono gli strumenti più ostili per chi ha iniziato da poco a fare l’archeologo, non si sa mai qual è la posizione corretta da tenere per non arrivare alla sera con un terribile male alla schiena o alle spalle. Ma quando si impara la posizione corretta, allora questi strumenti diventano i più amati nelle fredde giornate d’inverno. Un altro strumento è la cazzuola, che è diversa da quella comunemente nota e utilizzata dai muratori, ha infatti la lama di forma romboidale fusa in un unico pezzo con il manico, per sopportare le sollecitazioni imposte da un energico lavoro su superfici spesso compatte. Viene utilizzata più di altri strumenti perché, asportando piccole quantità di terreno, consente di evidenziare reperti anche molto piccoli come semi o frustoli di carbone. Ogni archeologo possiede una cazzuola, la “sua”, che lo accompagna in tutti i lavori: sa come impugnarla ed utilizzarla per evitare conseguenze dannose al suo polso, ma soprattutto con essa impara a riconoscere anche le minime variazioni nella consistenza del terreno che scava e quindi le variazioni degli strati. Altri strumenti sono la piccozza, una specie di piccone, ma con manico corto, usata quando il piccone è troppo e la cazzuola troppo poco per quello che si sta scavando. I bisturi, proprio i bisturi da chirurgo, vengono utilizzati per lavori particolarmente delicati come lo scavo di tombe e di scheletri, per liberare dalla terra oggetti molto delicati come i metalli, insomma in tutte le fasi di scavo in cui sia richiesta una precisione quasi chirurgica. Nel corso del lavoro si usano spesso paletta e scopino: la paletta più comunemente usata viene detta sessola, ha il corpo di forma triangolare e manico in asse con esso, serve per raccogliere la terra servendosi dello scopino. Per capire cosa si sta facendo è fondamentale tenere pulito, con scopino e paletta appunto, rimuovendo la terra che progressivamente viene scavata con la cazzuola. Carriola e secchi, infine, servono per trasportare la terra lontano dal luogo di scavo. Vi sono poi alcuni strumenti che servono in un momento molto importante dello scavo che è quello della documentazione: quando si evidenzia uno strato è necessario effettuarne la documentazione prima di procedere alla sua asportazione. Questa parte del lavoro è la più ambita perché meno faticosa, soprattutto nelle calde giornate d’estate quando non si sente il bisogno di fare attività fisica per riscaldarsi. Lo strato, o meglio la superficie dello strato, viene disegnata in scala e quotata: il disegno si esegue con metri, bindelle, carta e penna poi con l’ausilio del livello ottico si riportano le quote di punti significativi, cioè la profondità o l’altezza assoluta sul livello del mare; infine si procede ad effettuare la documentazione fotografica. La documentazione è importante nel lavoro dell’archeologo perché consente la conservazione di testimonianze che lo scavo distrugge o che, al termine dello scavo, vengono interrate e ricoperte. Ovviamente non si distruggono le strutture o i reperti, ma i livelli di terreno che ricoprono o avvolgono i beni archeologici. La documentazione viene completata con la compilazione delle schede di unità stratigrafica: ogni strato, ogni struttura è definita unità stratigrafica e viene descritta in apposite schede segnalandone tutte le caratteristiche di composizione, forma e colore, tecnica costruttiva ecc. Da questa descrizione del lavoro dell’archeologo sono emersi i disagi che si affrontano quotidianamente e qualcuno potrebbe dedurre che è un lavoro brutto e faticoso. Con estrema sincerità posso affermare che non cambierei il mio lavoro con nient’altro: a volte mi lamento per la fatica e i calli sulle mani, per l’aspetto trasandato e sporco che ho quando lavoro, ma nulla mi appaga come il vedere affiorare reperti e con essi una piccola parte della nostra storia. È bello mentre si scava cercare di capire perché uno strato ha una certa forma ed è composto da determinati materiali e oggetti, perché si trova in un luogo piuttosto che in un altro. Ponendosi queste domande si cerca di comprendere i processi che hanno portato alla creazione di una determinata sequenza stratigrafica e ad immedesimarsi nelle persone che nell’antichità hanno vissuto e agito in un determinato luogo. Alessandra Massari