Profumo di Lavanda

MA LA PACE E' POSSIBILE?????


la storiaIl film sugli organi donati non superala barriera fra israeliani e palestinesiStop alla pellicola «Il cuore di Jenin». Uno dei registi: «Boicottaggio accademico e culturale»«Avrei preferito un donatore ebreo. Non lascerò mai che i miei figli abbiano amici arabi: potrebbero subirne la cattiva influenza». Novembre 2005, Menuha, la figlia più piccola dell'ebreo ultraortodosso Yaakov Levinson, è stata appena salvata dal sacrificio di un bambino arabo. È anche questo, The heart of Jenin (Il cuore di Jenin), film sulla storia di Ahmed Khatib, palestinese ucciso a 12 anni dai soldati israeliani a caccia di terroristi della Jihad. Si divertiva con un mitra giocattolo nel centro di Jenin, in Cisgiordania: lo scambiarono per un miliziano. «Nessuno si aspettava quello che successe dopo», dice nella pellicola il medico di Haifa che tentò invano di soccorrerlo: anche se sarebbero stati trapiantati a bambini israeliani, i genitori decisero comunque di donare gli organi. «Mio figlio è morto. Forse solo così potrà restituire ad altri la vita — disse allora la mamma Abla, poco più che trentenne —. Che siano arabi o ebrei, non importa». Due anni dopo il padre di Ahmed, Ismail, meccanico del campo profughi di Jenin, 41 anni, quegli «altri» — cinque bambini israeliani che hanno ricevuto il cuore, il fegato, i reni e i polmoni di Ahmed — li ha voluti incontrare. Guarda il trailer del film "The heart of Jenin"E si è messo in viaggio da Gerusalemme al deserto del Negev. Per guardarli tutti da vicino e cer care forsennatamente in ognuno dei loro gesti, sguardi, sorrisi, un'eco del suo bambino. Per quanto conti in questi casi l'umana illusione, «in loro ho rivisto mio figlio», ha detto con più consapevolezza alla fine del suo itinerario attraverso Israele e attraverso se stesso. Le tappe di questo viaggio, l'inedita coppia di registi Leon Geller, israeliano, e Marcus Vetter, tedesco di padre turco, ha deciso di raccontarla in The heart of Jenin. Il film-documentario (in agosto a Locarno) girato nell'estate del 2007 e finanziato da una casa di produzione di Monaco, è diventato poi, via via, anche la testimonianza di un incontro complesso con almeno tre famiglie. Quella di Mohammed Kabua, figlio di beduini del deserto del Negev che da Ahmed ricevette un rene e che non smette mai di sorridere per tutta la durata del film. Quella di religione drusa di Samah Gadban, che abita nel piccolo villaggio di Pekiin, nel Nord, e che prima di avere il cuore di Ahmed, a 12 anni, non aveva mai potuto metter piede fuori dalla sua stanza. Infine quella di Menuha, la piccola ebrea ortodossa che dal ragazzino palestinese ha ricevuto l'altro rene. «Il film appartiene sia agli arabi che agli ebrei — ha detto Ismail a riprese ultimate —: riguarda semplicemente gli esseri umani». Il paradosso, però, è che proprio questa duplice appartenenza, la storia della generosità di un palestinese raccontata da un regista israeliano, ne ha ostacolato finora la diffusione. In Israele la pellicola è stata proiettata (fuori concorso) soltanto al Film Festival di Gerusalemme, la scorsa settimana. «All'analoga manifestazione di Tel Aviv, invece, non è stata accettata — racconta al telefono il regista tedesco Vetter —. Motivi artistici? Forse anche politici». In Cisgiordania il film lo hanno visto per ora solo nel campo profughi di Jenin, nell'ambito di una proiezione organizzata dallo stesso Ismail, e nel Centro franco-tedesco di Ramallah. «Lo abbiamo trasmesso a marzo», ricostruisce il direttore Fareed C. Maajari. Secondo lui la diffusione tra i palestinesi «è difficile se non impossibile, ostacolata da una forma di boicottaggio accademico e culturale che colpisce quasi sempre gli intellettuali israeliani ». Lui, invece, The heart of Jenin ha scelto di proiettarlo «per la sua ottima struttura drammaturgica e per il realismo niente affatto consolatorio ». Basta pensare, dice, al padre ultraortodosso di Menuha: «assolutamente incapace di riconciliazione». Secondo il regista Vetter, invece, i rapporti tra questa famiglia israeliana e quella palestinese si sono evoluti nel corso delle riprese, arrivando almeno, alla fine, al ringraziamento per il dono di Ahmed. Anche per questo il film, lui e il collega Geller hanno scelto di chiuderlo con un'immagine di Menuha, in altalena, sul prato: «È lei il nostro messaggio di speranza. Lei ha il potere di cambiare le cose».