Marco Zio BLOG

CHE NOIA, CHE BARBA, CHE NOIA LE TASSE di Lucia Del Grosso


Una volta, quando non si aveva vergogna di chiamare il conflitto sociale lotta di classe, i ricchi parlavano di tasse e i lavoratori parlavano di occupazione, di salari e di diritti. Poi la società si è liquefatta, per citare Bauman, e il pensiero unico iperliberista ha occupato tutti i cervelli. E nella liquidità globale, quella senza radici, senza destra e sinistra, senza conflitti strutturati, senza “noi” i ricchi sono rimasti ricchi, anzi lo sono diventati ancora di più, e i lavoratori sono diventati consumatori. Di lavoro non se ne è parlato più: il lavoro era quella cosa che sgocciolava insieme alla ricchezza dall’abbassamento delle tasse dei ricchi. Sgocciolava, proprio così: la famosa teoria del “Trickle down”, balla colossale secondo la quale più fai arricchire i ricchi (togliendogli il noioso disturbo di pagare le tasse) e più quelli faranno investimenti, daranno lavoro e faranno traboccare la loro ricchezza dai loro forzieri alle tasche delle tute blu. E tutti consumeranno: se non avranno abbastanza reddito disponibile ci sono sempre le carte di credito. Con il risultato che l’orticaria alle tasse si è diffusa anche tra i “consulavoratori” (mutanti dei lavoratori) che si sono convinti pure loro che la piaga del terzo millennio, il mostro da sconfiggere, sono le tasse. E allora adesso nei talk show non si riesce a schiodare la discussione da IMU, IRPEF, IVA e accise. Mi sento come la Mondaini: che noia, che barba, che noia. Non perché non siano un problema, anzi: c’è una dramma enorme di redistribuzione del carico fiscale, (chi ha di più deve pagare di più) e di elusione e evasione fiscale (chi ha di più deve fare meno il furbo). Ma non c’è solo quella mucca nel corridoio, per dirla in bersanese, c’è un’altra mucca più grande che la nostra informazione tende a scansare: la mucca precaria, disoccupata, esodata e cassintegrata. C’è una sproporzione scandalosa tra il rilievo dato nella discussione politica alle tasse rispetto ai temi del lavoro. Come se non ci si accorgesse  che il poveraccio con moglie e due figli precari o disoccupati dentro casa, magari pure cassintegrato o licenziato, sta diventando la fotografia dell’Italiano medio. Per lui il problema dei problemi non sono le tasse (semmai sono le tasse che i più fortunati non pagano per fornirgli un’adeguata rete di protezione sociale), ma il lavoro che non c’è. O che quando c’è è malpagato: l’Italia non brilla nella graduatoria europea dei trattamenti salariali. Forse se in quella casa lavorassero tutti al poveraccio non peserebbe pagare il giusto, a patto che chi ha più di lui paghi più di lui. Non gli peserebbe pagare l’IMU, purché riformulata in termini più progressivi. E detto questo si passerebbe a trattare la madre di tutti i problemi: il lavoro.  Ma la nostra informazione sconta una pesante sudditanza culturale verso le parole d’ordine della destra. Compresa quella rivoluzionaria in cachemir con contratti miliardari e in ansia da share – quella che invita in trasmissione un vecchio trombone travestito da cameriera che spolvera i mobili, e lo mette a confronto, per perfezionare il capolavoro, con una venditrice di armi che ha dichiarato guerra all’euro – Perché tutta l’informazione in Italia, anche quella che si è messa il pennacchio dell’informazione di vera opposizione, è contigua con la destra, sogna i suoi stessi incubi e parla la sua stessa lingua, a volte nemmeno con parole diverse. Altrimenti non svolgerebbe con docilità bovina i compitini che gli assegna la destra: parlerebbe anche di quello di cui la destra non sa parlare. Di lavoro e della sua dignità.Lucia Del Grosso