Abbandonare Tara

Parlarsi addosso


Ieri una full immersion, a Bologna, in un convegno.Dimensione usuale per me: ma forse dopo lo stress intensivo di questi ultimi mesi, sono io che sto cambiando. Anche le situazioni usuali non mi sembrano poi così accettabili nella loro ovvietà e nei loro stereotipi.Vecchie glorie della materia che sembrano un po' i vecchi atleti chiamati ad inaugurare le olimpiadi o a celebrare un anniversario. Quelli, bolsi, con i muscoli ormai flaccidi e la massa corporea tramutata in pancia, in doppio mento, in una grossa e, nella migliore delle ipotesi, compatta montagna. Questi, grigi e ingobbiti, muniti di molteplici occhiali, lo sguardo vacuo di chi ascolta soltanto l'eco dei propri pensieri e delle proprie elucubrazioni, sordi ormai, non fisicamente (per quanto....) ma intellettualmente, ad ogni provocazione a riconsiderare certezze acquisite che venga da contesti diversi dalla loro stretta enclave.C'era poi la giovane accademica emergente. Dove per "giovane" leggasi "in bilico tra la quarantina e la cinquantina"; con capello mechato e voce mielosa, pronta a offrirsi come badante intellettuale delle vecchie glorie di cui sopra, onde raccoglierne presto eredità e allori (e questo è il vero significato della parola "emergente").C'era l'assestato e accreditato funzionario di carriera, eleganza all'inglese, baffo brizzolato, sicumera e rampantismo, che ripete sempre se stesso dietro un linguaggio burocratese e una serie di ridondanti frasi a effetto, buone per qualsiasi convegno, pronto a riciclarsi quindi come politico, soprintendente o dirigente ministeriale, dovunque lo porti il vento di carriera.C'erano gli sprovveduti, quasi giovani, ricercatori di minuzaglie entomologiche, analitici ma molto poco sintetici: cacciatori di farfalle d'archivio, accalappia fotografie d'epoca, scopritori di tesori inesistenti, pallidi emuli della grande connoisseurship di inizio Novecento. Ridotti oggi a scagnozzi di antiquari, a piccoli chimici di piccoli laboratori, a restauratori routinari e pedanti.C'era poi qualche sparuto, isolato, genio che brilla di luce propria, vera e abbagliante. Ma sepolto nell'uditorio, attento, senza alcun battito di ciglia, senza perdere una parola. Perché il genio sa ascoltare.Il grande studioso inglese, imperturbabile e flemamtico, le lunghe gambe accavallate con non-chalance, un'improbabile camicia rosa sotto il completo oxfordiano, unico detentore delle conoscenze delal liturgia alto-medievale. C'era l'americano eterodosso, dinoccolato, capello lungo e ricciuto, il sorriso a 52 denti di Superman, falso ingenuo, falso raggirabile, sicuro e tagliente come una lama di rasoio nei suoi giudizi infallibili. C'era l'italiano estroso e  irriverente, spesso barocco e ridondante nel linguaggio, ma dotato di una conoscenza inesauribile su tutti gli artisti minori della valle minore d'Intelvi.E tutto un parlarsi addosso. Tutti che parlano solo a se stessi: autoreferenziali.Nessuno che ascolta la conferenza altrui. La tavola rotonda come spunto per autocelebrazioni non richieste e non accolte. Tutto un accapigliarsi su una data, un nome, un'ipotesi, un cavillo, un particoalre, una somiglianza, un labile cenno stilistico.Ma io, cosa ci faccio qui?Finora ascoltavo, dissentivo, assentivo, credevo ci fosse dibattito e quindi crescita.Oggi osservo: colleziono impressioni, catalogo tipi umani.Domani, forse, non ritornerò. Cari miei, studiosi immaginari: occuperò il mio tempo pulendo casa, cucinando dolci, facendo shopping.  Magari le scoprirò attività più soddisfacenti.