Emile Friant (1863-1932) Ombres portéesSpesso la sottile distanza fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti sembra esser niente.Spesso è solo desiderio di tornare indietro nel tempo, ricordo, nostalgia, memoria.Talvolta l'illusione che un battito più veloce del cuore, calore e tenerezza abbiano un'altra fonte che non la nostra stessa mente.Talaltra invece è una cappa nera, è un peso che incombe, è un macigno che rotola già dalla montagna del tempo. Mi sei venuta incontro, portata da qualcosa che non erano i tuoi passi. Ti sei fermata, immobile, vestita di scuro, alta come non ti ricordavo quasi, dopo anni di immobilità su una sedia a rotelle, preceduti da anni di invecchiamento che rimpicciolisce e rende il corpo di una volta un bozzolo.Avevi un'aria severa. E piangevi."Perchè mi hai abbandonata?" - chiedevi amareggiata, con quel tono i voce basso, profondo, che scavava la tua anima e sembrava voler scavare l'anima di coloro cui parlavi. Quel tono che ti conoscevo tanto bene."Perché mi hai abbandonata? Perché mi hai lasciata sola? Cosa avevi da rimproverarmi, cosa ti ho fatto?"L'onda di angoscia mi ha sommerso, un peso e uno squarcio nel cuore. Cuore che sanguina (mai parole più vere), un sangue nero e denso, quasi grumi di dolore profondo. Il dolore di chi si accorge che, inevitabilmente forse, ha fatto del male a chi ama, ha causato una ferita che niente potrà mai rimarginare, curare, sanare.Il nero della veste, nuvole sfilacciate di nebbia grigia e nera che arrivava a folate a nascondere in parte il tuo volto, a disperdere le tue parole in una eco remota.La nebbia era il mio stesso dolore: non vederti per non soffrire.Eppure mentre te ne andavi, a pezzi, a brandelli, mentre il tuo volto tanto amato veniva divorato a morsi dal buio, ti rivolevo, volevo vederti e sentirti di nuovo, anche a costo di soffrire.Cercavo di parlare ma non potevo. Cercavo di afferrarti ma non avevo braccia, né piedi per raggiungerti, né lacrime per sfogarmi. La statua di sale ero io, il sale bruciava la mia enorme, unica ferita, la ferita che ero io.Piangevo forte mi lamentavo, nel sonno, mi ha detto lui.Mi ha svegliata temendo che stessi male.Ho urlato svegliandomi e urlando ho recuperato, immeditamente, ma soltanto, la percezione del tempo passato. "E' già morta" ho urlato "E' morta tanti anni fa. E io non l'ho mai abbandonata"!.Non avevo altro contatto con la realtà, non sapevo dov'ero. Ho messo i piedi fuori dal letto, impaurita, per scappare. E ad un tratto è stato tutto passato, tutto ricollocato, tutto incasellato.Un incubo - ha detto lui.No, non un incubo. Una percezione, un richiamo, un grido di aiuto. Non so.Non è un incubo sognare la propria amatissima madre.