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Creato da: habral1 il 04/10/2006
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Il manifesto

Post n°5 pubblicato il 04 Ottobre 2006 da habral1
 
Tag: Teoria

La pittura e le arti figurative all’apparenza non hanno mai goduto di tanta fortuna.

Ogni mostra di maestri classici o del novecento organizzata anche nei più sperduti paesini o cittadine d’Europa e degli Stati Uniti vede frotte di visitatori accorrere entusiasti e fare ore di fila per poter ammirare schiacciati come acciughe in stanze museali buie e scomode (mai che ci sia una poltrona, una sedia, una panca per poter sedersi a riposare e ammirare da seduti i vari capolavori) opere normalmente già viste e straviste, sicuramente in migliaia di copie e riproduzioni e poter quindi godere di quel momento estatico che è il riconoscimento dell’opera e con essa del genio.

Al contempo, per questa bizzarra sclerosi che ha colpito il mondo artistico occidentale, i pittori attivi, che non amano più farsi chiamare così preferendo la dizione più generalista di artisti o al massimo di artisti figurativi, fanno un’arte spesso incomprensibile ai più, sbalordendo in installazioni o tornando ad un figurativo barocco o ad un realismo aggressivo e di maniera. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: mostre di contemporanei pochissime e poco frequentate (rispetto alla fiumana inarrestabile dei frequentatori delle mostre classiche) e musei ad essi dedicati (Tate o Rivoli che sia) assolutamente vietati ai minori di un sapere artistico da iniziati e comunque a tutti coloro che non facciano pubblicamente professione di una umiltà intellettuale per ogni altro verso ammirevole.

Che senso ha tutto questo? In quante case, in quanti castelli o palazzi fanno mostra di sè opere di contemporanei che dicano davvero qualcosa ai legittimi proprietari e non siano stati comprati per quel collezionismo che tanto ha a che fare con la speculazione finanziaria e i movimenti dei capitali?

Ovviamente a nulla vale la constatazione che quanto fin qui descritto è destino comune anche ad un’altra arte altrettanto all’apparenza facile e consueta come la pittura: la musica.

Anche in questo caso frotte di amanti del bel canto e delle buona musica accorrono a concerti e festival, mentre le opere dei musicisti professionisti contemporanei, coloro i quali studiano e lavorano con gli strumenti ogni giorno che Dio manda in terra vengono poco o punto capite e ascoltate. Perché? Perché assolutamente inascoltabili e inudibili. La musica, però, si risponderà, si salva con il fenomeno ormai da decenni imponente della musica popolare, della cosiddetta musica pop o rock o comunque di quel genere che unisce facilità di ascolto a brevi testi più o meno significativi, intensi o banalmente banali.

Ma l’apparente differenza è soltanto tale, apparente per l’appunto: infatti anche per la pittura continuano a impazzare pittori più o meno sconosciuti che popolano non solo le fiere, ma soprattutto le case dei loro committenti. Le opere di costoro sono facili, comprensibili, descrittive così come era la pittura nel settecento e nel primo ottocento. Si è tornati là? Sicuramente la gente posta tra l’inqudine e il martello della scelta tra un’arte facile e facilmente comprensibile e l’arte contemporanea concettuosa e supponente fino alla noia, la gente si rivolge con continuità e fiducia alla prima e in barba alle grandi tele neoprimitiviste o alle mastodontiche installazioni (peggio performances) da giardino o cortile continua ad ordinare ritratti, paesaggi o opere di vago sapore simbolico.

Con questo quadro di fronte i critici e gli intellettuali hanno dichiarato più volte (per guadagnarsi spazi e parcelle sui pubblici giornali e far salire le quotazioni di quei pochissimi maestri-chirurghi specializzati alle loro scuole che soli possono e riescono a tenere in vita il paziente-arte) che l’arte e la musica sono morte. Dopo la morte di Dio, vaneggiano, anche le arti liberali sono morte, non esistono più e ciò a cui assistiamo sono le ultime scariche elettriche di cui i muscoli di dette arti erano ottocentescamente dotati.

Noi non lo crediamo. Noi non crediamo che una attività che ha accompagnato lo sviluppo umano da che si ha notizia e informazione possa "morire" per cause peraltro scarsamente illustrate, non spiegate, misteriose. Cancro? Tubercolosi? La Sars? L’Aids? Di che cosa dovrebbe essere morta l’arte? L’arte è morta nella testa di coloro i quali sono stufi, stanchi, vecchi e non hanno occhi per vedere e orecchie per sentire, per capire le differenze, le novità, i nuovi immaginari che si affacciano, i nuovi mondi che avanzano.

In un panorama però così degradato per prima cosa bisogna porre dei paletti, tracciare dei confini, capirsi, intendersi.

Ciò che io non credo sia morta è la pittura, intesa come l’arte di raffigurare manualmente in uno spazio bidimensionale mondi, prospettive, cose, persone.

Due sono i vettori che ne decretano la continua vitalità: il fatto che i mondi e le prospettive siano infiniti e il fatto che la manualità continui a provocare al contempo piacere in chi la esercita e stupore e ammirazione in chi la osserva.

Mille cose sono da ritrarre e da mostrare a partire da ciò che ci circonda (fisicamente, psicologicamente, allegoricamente e metaforicamente) per arrivare a ciò che per così dire ci sostanzia (idee, concetti, sentimenti, sogni, paure, ecc.). La ricerca personale è infinita perché infiniti sono gli oggetti della rappresentazione.

Alla stessa maniera, le tecniche che possono essere pure o miste, ma che comunque siano sono anch’esse personali, assolutamente uniche, infinite anch’esse nelle sottigliezze, nelle grandi scelte di materiali e sfumature.

Si badi bene: con ciò non voglio dire o dedurre la morte di altre consorelle (musica, scultura, teatro, cinema, ecc.). Non ho ambizioni pan-artistiche. Solo di pittura so (poco) solo di questa voglio parlare.

Quel che è certo è che essa non è morta. Affatto. Essa vive e vegeta e cerca e trova incessantemente nuove cose da mostrare e nuovi metodi per farlo.

Essa è viva nell’uso delle tecniche consuete (olio, acquarello, tempera, pastelli), ma anche nell’uso di nuovi strumenti (fotografia artistica in primis).

Essa è viva soprattutto nella necessità interiore di ciascuno di noi di abbellire pareti e case, di rendere lo spazio in cui viviamo più nostro, più caldo, accogliente, con oggetti, i quadri, che ci parlino, ci riposino o ci eccitino, a seconda delle necessità di ognuno. Il colore da questo punto di vista è fondamentale e cosa è la pittura se non colore e linee, ma colore soprattutto se è vero come è vero che il grande Klee solo dopo un viaggio in oriente e la scoperta della luce e dei colori disse a se stesso: io sono pittore.

Ecco quindi che la pittura è elemento archittetonico per antonomasia, non può vivere senza uno spazio fisico, una parete, un luogo per il quale è stato pensato e vive. Ogni quadro vive e può vivere solo in certe condizioni di luce e non in altre, solo con determinate esposizioni al sole e non altre. In questo senso le installazioni hanno in sé un valore, una idea generale e per ciò stesso vitale e proficua.

L’arte senza l’archiettetura è come pensare ad un uomo senza aria da respirare, senza acqua da bere. Come se riuscissimo a concepire un bimbo senza padri né madri, sorto dal nulla, dallo spazio siderale, vuoto, freddo, alla fin fine inutile.

Ogni quadro va pensato per il posto nel quale va poi posto e in questo si realizza l’unione di intenti tra coloro i quali i quadri li fanno, li pensano e li creano e coloro i quali i quadri li comperano. Ogni quadro andrebbe accompagnato da parte dell’artista con indicazioni precise sull’ambiente per il quale è stato pensato, sul tipo di luce che dovrebbe cullarlo o shoccarlo, al limite anche sul tipo di cornice che meglio si adatta, lasciando poi libero evidentemente il futuro acquirente di dare anch’egli un contibuto artistico, ripensando, analizzando e criticando se del caso le indicazioni del pittore e collocando e valorizzando il quadro come meglio ritiene.

Un quadro senza queste indicazioni è come un nuovo prodotto, mai visto prima, messo sul mercato che non si sa a cosa serve, per cosa è stato pensato, quali sono stato gli intendimenti di colui che l’ha fatto, come andrebbe usato. Poi, ripeto, è evidente che chiunque di noi può comprare un libro ed usarlo per raddrizzare un tavolo, ma quel libro, si sa quando lo si compra, è stato pensato per soddisfare quegli scopi e non altri.

Quindi:

  • Orgoglio per il fatto tecnico – rappresentazione bidimensionale di oggetti concettuali pluridimensionali
  • Necessità di maggiore integrazione con l’elemento archittetonico
  • Obbligo per ciascun quadro delle istruzioni per l’uso

 
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