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Il doppio

Post n°11 pubblicato il 05 Ottobre 2006 da habral1
 
Tag: Teoria

Il tema del doppio è un tema vasto come il mare, come il cielo, può vuol dire tutto o niente, lo si può declinare in mille maniere, accenti, modi di dire, suoni, canzoni, letture e immagini.

Quanto ho prodotto in questi ultimi mesi, anni è una riflessione su questo tema, giocata soprattutto su due versanti (il doppio del doppio, dunque): quello interno, psicologico, interiore, e quello esterno, esteriore e sociale.

Queste sono le due chiavi di lettura principali, dicevo, ma poi, ovvio, se ne sovrappongono altre ed altre alle volte prendon la scena: la distanza e la vicinanza (tra i due elementi del doppio), la complementarietà, il contrasto, luce, buio, notte, giorno, grigio, colore, bianco-nero, verde-rosso, giallo-blu.

Al di là, però, del tema e delle sue implicazioni (che vedremo meglio dopo), c’è una cosa cui tengo molto per prima e innanzi tutto: la pittura, l’immagine pittorica. Questa è epoca di installazioni, di riproduzioni, di molto cervello e poca mano, di mostre fluviali che si devono vedere, che si devono invadere, con ogni mezzo e maniera, quasi che il destino di noi tutti fosse quello del blob, della materia informe che intelligentemente un giorno invaderà il mondo. Io credo nella pittura che è riflessione, nello spazio bidimensionale evocativo, descrittivo in quanto evocativo, credo in questo linguaggio che molto ha dato e molto può dare, credo nei pittori che guardano a lungo i propri quadri e non ne sono soddisfatti fino a che non li riconoscono come tali.

Bacon parlava della ricerca dell’"immagine", come Achab parlava di Moby Dick. Picasso provocava (come spesso faceva) e diceva che lui trovava e non cercava. Entrambi parlavano della stessa cosa. Della lingua che i quadri parlano prima, durante e dopo la loro nascita e che se uno ha pazienza e sufficiente cultura può ascoltare, intendere, capire.

Infiniti sono i mondi che possiamo ancora dipingere e i colori che possiamo inventare e appendere ai muri e osservare in silenzio o con la coda dell’occhio chiacchierando con gli amici. Infiniti, dentro e fuori da noi. Dentro la nostra testa e fuori dalla nostra testa. Chi non sa cosa dipingere di nuovo, di ancora non visto, chi parla di morte della pittura, di morte dell’arte è perché non ha occhi, testa, cuore.

La velocità, le macchine, i materiali, lo sappiamo, l’abbiamo già visto. Estetiche che nessuno ha davvero capito, perché spesso solo brutte, incolori e insapori come dati di fatto senza cuore. O l’ipperealismo, quasi che la pittura fosse una gara, già persa ovviamente, contro la perfezione delle macchine. La pittura è unicum ed è tale non solo nella sua caratteristica primaria, l’artigianato, il fatto a mano, ma anche e soprattutto nella sua intrinseca e definitoria natura di cogliere l’attimo nel tempo, nel perdurare dello sforzo, nel tendersi della mano a carezzare le superfici, a lisciare il foglio e a cullarlo, o violentarlo, fino a che non riproduce esattamente quanto era all’inizio e aveva solo bisogno di essere detto.

Il suo unicum è quanto esprime quell’insieme di linee e colori che fanno sì che l’immagine sia lì, di fronte a ciascuno di noi e ciascuno di noi, se vuole leggere, sentire, può leggere e sentire. Ciò che vuole. Ai vari livelli della cipolla. Ma tutti, pittore compreso, non possiamo che riconoscerci in lei, in una verità banale, ma essenziale: se essa, l’immagine, parla, se il pittore è riuscito a coglierla, se essa dice, racconta, pizzica, tormenta, solletica, o ride, essa è, esiste, e prima non c’era.

E il mondo con essa, con la pittura e i quadri è un mondo migliore, di poco forse, ma migliore, essenzialmente migliore.

 
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