Creato da guarneri.cirami il 18/07/2009
 

Racconti&altro

Le storie di Alberto Guarneri Cirami: i suoi romanzi, i suoi racconti e il suo teatro.

 

 

Quando mi innamorai di Te

Post n°1045 pubblicato il 18 Novembre 2015 da guarneri.cirami
 
Tag: Poesie

Quando mi innamorai di Te
fu come se il mare
il vento e la pioggia
cantassero in me
canzoni mai ascoltate…
Quando mi innamorai di Te
fu come se una variopinta farfalla
si posasse danzando
silenziosa sull’anima
per colorare di sé
le grigia mura
della sua prigione…
Quando mi innamorai di Te
gli oscuri boschi fiorino
di bianche orchidee…
di viole e rossi papaveri
i prati gelati…
mentre il vento soffiava su di me
profumi di primavere lontane…
Quando mi innamorai di Te
Fu come se ogni aurora
donasse agli ingrati la tua gioia
e ogni crepuscolo
partecipasse ai distratti
la tristezza del mio amore…

Quando mi innamorai di Te
la spiaggia solitaria dell’ inverno
si popolò di gabbiani
e le pozzanghere scure
mi parvero mari
dove bianchi velieri
navigavano verso l’infinito…
Quando mi innamorai di Te
l’universo si illuminò di stelle
e una luna gentile
si versò tenera sulla notte scura…
Quando mi innamorai di Te
crollarono tutti i muri
che dividevano la terra
Così che dove
io portavo il mio amore
il male non esisteva
non esisteva il dolore…
Quando mi innamorai di Te
io persi la memoria
e i sogni presero possesso
del mio cuore…
Quando mi innamorai di Te
Tu sola esistevi amore
ad illuminare la terra
con la tua bellezza…
Quando mi innamorai di Te
io non ebbi più paura
di invecchiare, di morire
perché il tempo finiva in Te
nel tuo essere misterioso
e profondo di oceano…
Perché il tempo finiva
in conchiglie da collezionare
sulla riva segreta del mio essere…
Quando posavo sul cuore
i loro gusci di madreperla
per sentire ogni volta
la eco lontana delle tue canzoni
ed illudermi
che una vita felice potesse
fiorire anche lì…
sulla sabbia del mio deserto…

 

 

Alberto Guarneri Cirami - I Versi Perduti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

LA DOLCE MORTE

Post n°1044 pubblicato il 18 Novembre 2015 da guarneri.cirami
 

Dedico il mio racconto ad una grande persona:
a Giulio Cesare Buono,
mio indimenticabile professore delle Medie,
che si è spento in questi giorni

Più dolce sarebbe la morte se il mio ultimo sguardo
avesse come orizzonte il tuo volto.
E se così fosse, mille molte vorrei nascere
per mille volte ancor morire.
William Shakespeare, da “Amleto”

Forse perché della fatal quiete tu sei l’imago,
a me sì cara vieni, o sera!”
Ugo Foscolo da “Alla Sera”

firenzealbadel7ottobre-viL’ultima giornata di vita del professore Giulio Corsaro era iniziata all’alba con una richiesta particolare a Turi Giordano, infermiere di turno del Reparto di Oncologia e suo ex alunno. “Posso fumarmi un’ultima sigaretta, Salvatore?” “Un ultima sigaretta professore?” aveva ripetuto sorpreso l’infermiere. Si aspettava magari che gli chiedesse dell’altra morfina, ma una sigaretta… “Una sigaretta non si nega mai ad un condannato a morte, Salvatore…Mia nonna, ricordo, ci chiese un gelato al cioccolato ed un caffè…Che male può farmi una sigaretta ormai?” Stavano tutti sulla terrazza che dava luce alla sala dei visitatori. Il professore aveva infatti chiesto al più giovane dei suoi figlioli, di essere accompagnato lì, per guardare l’alba e sentire sulla sua pelle martoriata odorante di medicamenti l’aria fresca e profumata di quel mattino di primavera, di quell’ultimo giorno del mondo…

Era quello uno di quei mattini che solitamente donano speranza anche agli esseri più tristi e depressi. Anche lui stesso, in gioventù, malato d’amore e preoccupato per il lavoro, ne aveva sperimentato i benefici effetti. Ma adesso guardava a quel mattino, ai fiori, agli alberi, agli esseri del cielo, che riempivano di musica e colori la terra, con un po’ di mestizia. Era davvero dura dover lasciare tutto. Ma quel suo nemico era troppo più forte di lui, e sentiva di non potergli più opporre molta resistenza, mentre le sue ossa sembravano spezzarsi sotto la croce che il Destino aveva scelto per lui. Tuttavia era forte la sua fede e ringraziò Dio ancora per quel nuovo mattino, dopo quell’altra notte insonne di sofferenza; e ringraziò Dio per la tutta la sua vita, trascorsa in quella terra benedetta dal sole; per la sua vita da uomo libero, amato dai suoi cari e rispettato dai suoi amici. Perché se il lavoro – conquistato e portato avanti con gli studi e i sacrifici di una vita – ti da la dignità e la libertà, è l’amore di chi condivide la tua esistenza, a donarti quella “beatitudine (che) addolcisce ogni dolore” e ti fa andare avanti. Come accadeva adesso in quella sua ultima battaglia, con la moglie e i cinque figli attorno a sé.

E nessuno poteva dire che egli non meritasse quell’amorevole sostegno. Che non si era certo smokingrisparmiato per far star bene la sua famiglia durante i suoi cinquant’anni di matrimonio. La lunga carriera di insegnante; le lezioni private; e finanche (grazie alla sua abilità alla macchina da scrivere e poi al computer) la battitura delle tesi di laurea di molti alunni e figli dei suoi alunni. Cosicché, in quella lunghe notti trascorse dinanzi ad una macchina da scrivere e poi ad un computer, caffé e sigarette erano stati i suoi preziosi alleati contro la stanchezza. Tanto lavoro, tanto volontariato in parrocchia, e poche vacanze così era stata la vita del professore. Per la villeggiatura bastavano la campagna della moglie poco fuori città; per i divertimenti le feste della parrocchia, le partite allo stadio di una squadra di quarta serie e i picnic al bosco di Campo San Pietro a venti chilometri dal paese. In verità il professore aveva anche delle passioni tutte sue, che condivideva con alcuni amici di lunga militanza: il teatro, la musica classica, l’opera lirica e la politica cittadina. Per non parlare della sua collaborazione ad un quotidiano della provincia per lo sport e la cronaca nera locali. Una vita piena sorretta dalla passione e dalla fede.

Egli non aveva mai avuto il tempo di conoscere la noia ed altri vizi che non fossero le sue sigarette. I tanti ex alunni, i molti amici, che nei giorni della sua malattia erano andati a trovarlo in ospedale, rappresentavano la prova evidente che la sua vita era stata spesa bene, che aveva fatto una buona semina…e nessuno l’avrebbe mai dimenticato. “Ma anche che sto per morire, Lucia!” disse il professore alla moglie, che per tutta risposta scoppiò a piangere. “Ma che dici Giulio!” “Non piangere dai Lucia…Per tutti i mortali morire è un dovere!” concluse il professore col fiato sempre più corto. Tanto che Peppe, uno dei figli, pensò di aumentare la dose di ossigeno “Oh Giulio, al diavolo le tue citazioni!” replicò la moglie. “Poi per i vecchi come me è addirittura un obbligo: stiamo diventati troppi a questo mondo, bisogna pur fare spazio! Anche se, quando s’avvicina la morte, nessuno vuole morire, la vecchiaia non pesa più.” riprese lui serafico. “Trovo il tuo spirito proprio fuori luogo…” protestò ancora la moglie. Cosicché il marito le sorrise chiedendole di avvicinarsi a lui e mettersi comoda, che voleva metterla alla prova. “Quale prova, Santo Iddio?” “Ti da fastidio la sigaretta cara..?” “Mi prendi in giro Giulio…? Ti sopporto da una vita con quelle tue maledette sigarette! A te, a te dovrebbe dare fastidio…Ma se non riesci neanche a respirare Giulio! Buttala via per carità…” “ Ma che male vuoi che mi facciano ormai…anche il dottore non dice nulla…Ma è vero: quella di non fumare, Lucia, è l’unica promessa che non ho mantenuto. Per il resto sono stato un buon marito, non è vero forse..?” “ Si…lo sei stato….lo sei ancora, ma basta con questi discorsi…vuoi farmi piangere?” disse la moglie stringendogli la mano flagellata dagli aghi delle flebo. “Ricordi cara quando eravamo fidanzati..?” “ E’ passato così tanto tempo Giulio…” Ma egli rievocava il passato e i suoi occhi si illuminavano. “Dopo mesi di prove io e gli altri ragazzi dell’Oratorio Salesiano riuscimmo a mettere in scena Amleto e tu eri in prima fila a guardarmi…che eri bella Lucia!” “Giulio!” “ Ed io era come se recitassi solo per te, solo per i tuoi occhi…” “Basta Giulio…ti prego…siamo vecchi ormai….” “ Più dolce sarebbe la morte se il mio ultimo sguardo/ avesse come orizzonte il tuo volto./E se così fosse, mille molte vorrei nascere/ per mille volte ancor morire…» Era troppo questo per la povera Lucia, che prese a singhiozzare forte e rientrò dentro, raccomandando ai figli di badare essi a quel testardo del marito. « Cosa ho mai fatto…» fece sorpreso deluso il professore dinanzi a quella reazione. «Anche tu, però, papà…» osservò la figlia, che corse subito a consolare la madre.

timthumb.php«Non faccio che fare piangere la mia ragazza…E pensare che conquistai vostra madre facendola ridere!” osservò immalinconito il professore, che adesso però sentiva freddo tanto da chiedere ai suoi figli di riportarlo in camera. Lungo il tragitto egli però si avvide della moglie stanca disperata, che si abbracciava alla figlia. Così si lamentò con i figli di quell’insopportabile piagnisteo, di quel mortorio che accompagnava il suo trapasso. Come se la vita finisse davvero lì, murata in un sepolcro. Che invece era da lì che iniziava qualcosa di inimmaginabile ai suoi sensi…La qualcosa lo intristiva certo, per la perdita dei propri cari e di quella maschera a cui s’era abituato da anni, e che l’aveva accompagnato per l’intera esistenza; ma pure lo intrigava, per il mistero che lo attendeva al di là della sofferenza e della morte del suo povero corpo smagrito. Così rivolse alla moglie una sguardo amorevole e le porse la mano, perché lei la prendesse un’ultima volta prima dell’addio, come quando erano fidanzati ed avevano tutta una vita davanti a loro. Il professore aveva in quell’istante lo stesso sguardo luminoso e birbante di quando era solo un giovanotto di belle speranze con un mucchio di idee per la testa. Così sotto gli sguardi inebetiti dei medici cantò un’aria che gli ricordava i bei tempi in cui lui e la moglie erano giovani e innamorati. Perché la vita è bella e non ce lo dobbiamo mai scordare! Questo a parte questo gran problema della morte, che nessuno potrà mai risolvere, neanche le menti più brillanti del pianeta! Basta pensare che Dio Medesimo fattosi uomo è dovuto prima morire e poi risorgere. «Eh, un’impostura della gente plebea! La nobiltà ha dipinta negli occhi l’onestà. Orsù, non perdiam tempo: in questo istante io vi voglio sposar. Quel casinetto è mio: soli saremo,e là, gioiello mio, ci sposeremo. Là ci darem la mano, là mi dirai di sì. Vedi, non è lontano: partiam, ben mio, di qui». Giulio così andava incontro alla morte: cantando le sue belle arie, quasi andasse ad un matrimonio. Non vi dico la meraviglia dei medici e degli infermieri. Nessuno di loro aveva mai visto qualcuno, con la grave patologia di cui soffriva il professore, così allegro e lucido e, in apparenza, strafottente.

Viale-alberato

Ma lì, in ospedale, Giulio Corsaro non voleva morire. Così parlò forte ai suoi cinque figli. Anzi prese uno di essi, Peppe (quello che gli somigliava di più), per il colletto e gli disse chiaro e tondo che lo stava deludendo con quel suo immobilismo. Che facesse qualcosa, che parlasse con i medici e lo facesse uscire da lì quel giorno stesso. Il professore non vedeva l’ora di tornarsene a casa sua. Tanto da contemplare (in caso di resistenza dei medici) pure un piano b: la fuga nell’ora di cambio del turno. Ma non c’è ne fu bisogno, perché anche i medici alla fine convennero che non aveva senso che rimanesse lì: ossigeno e antidoloriferi li avrebbe avuti anche a casa. Così i figli misero la firma e la sera di quel suo ultimo giorno sulla terra, il professore Corsaro se ne tornò a casa. “Forse perché della fatal quiete tu sei l’imago, a me sì cara vieni, o sera!” disse mentre contemplava il lungo viale alberato che conduceva alla sua abitazione, aspirando forte il profumo dei giardini che tornavano a fiorire. Mai come in quel momento (forse solo durante la sua fanciullezza) egli aveva prestato tanta attenzione al cinguettio dei passeri tra i rami; mai aveva provato tanta meraviglia commozione e malinconia guardando l’orizzonte ed il colore del cielo al tramonto di quel suo ultimo giorno. Piangeva, ed a un certo punto chiese ai figli di fermarsi un istante in un largo belvedere. Perché da quel punto del paese egli potesse vedere per un’ultima volta il mare: immobile e azzurro come in un dipinto… “Ma basta malinconia,” disse Daniele, il figlio minore, dopo che sistemarono il padre in un lettino “ potremo giocare a carte, che ne dite..?” “Credo che papà debba riposare, magari dormire qualche ora…” disse Stefania, l’unica ragazza dei Corsaro. “ Ci manca solo questo, che dorma qualche ora…E chi ha sonno figlia mia. Avrò tanto tempo per dormire…dopo.. Sveglio, sveglio voglio stare, e giocare a carte, che stavolta magari vi faccio pure vincere…” Così Luciano, il maggiore, alzò la spalliera del letto e il professore giocò con i suoi ragazzi fino a notte fonda, fino a quando le sue palpebre ed il suo respiro non si fecero pesanti e l’ultimo canto non morì sulle sue labbra. Poco prima di perdere coscienza aveva voluto ascoltare un’ultima volta la sinfonia della sua opera preferita – La Forza del Destino di Verdi – e salutare, abbracciare uno per uno i suoi ragazzi e la moglie…

“Non c’è orizzonte più bello di voi per i miei occhi,” aveva detto loro prima di addormentarsi, ripensando al suo amato Shakespeare, “mai, mai ho sognato qualcosa di migliore o diverso per me…fama, onori, gloria non sono niente di fronte alla gioia all’amore di una famiglia…di una moglie, dei figli…siete stati voi miei cari la mia vita, la mia gloria, il mio onore…”

Alberto Guarneri Cirami

© Riproduzione riservata

 
 
 

NON PRONUNZIERO' IL TUO NOME

Post n°1043 pubblicato il 10 Gennaio 2014 da guarneri.cirami
 
Tag: Poesie
Foto di guarneri.cirami

Così…non pronunzierò mai più
il tuo nome…?
Misterioso immenso
come il profondo cuore dell’ oceano
che popola di sogni la terra…
Mai più… il tuo nome…
Luminoso leggero
come ruscello
che nell’anima
scava
pozzi di eterna solitudine
nell’illusione di custodire
la bellezza
d’una luna lontana…
Il tuo nome…
Dolce violento
come il segreto linguaggio
del vento
che scuote il cuore
come fragile canna di palude…
Così…non pronunzierò mai più
quel nome…tanto amato..?
Musicale
come la pioggia
che danza sulla città sognante
e bussa al cuore inquieto…
come la pioggia
che gentile profuma
la terra spoglia
di viole e di giacinti…

Alberto Guarneri Cirami (da Versi per Dulcinea)

 
 
 

CINEMASCOPE

Post n°1042 pubblicato il 10 Gennaio 2014 da guarneri.cirami
 

Dulcinea l’avevano scritturata per un film, attraverso i buoni uffici di Valter Nobile. Era una cosa che sognava sin da ragazzina, quando guardava incantata il cinemascope e collezionava le locandine dei film. Immaginava i suoi occhi espressivi e dolci su quelle locandine e sullo schermo gigantesco del cinematografo, adorati da milioni di fan, subito dopo il ruggito del mitico leone della Metro Goldwyn Mayer. Si raccontava nell'ambiente che il regista, un giovanotto milanese della Bovisa, fosse un autentico genio ribelle. E forse era vero. Il suo looch estroso, il suo naso, le sue braccia sembravano, infatti, deporre per l’avanguardia assoluta. Un enfant prodige, un poeta maledetto donato da Lucifero al cinema d'autore. C’era anche la possibilità che il film (grazie ad un produttore di Varese) potesse essere presentato alla Mostra del Cinema di Venezia ed anche a Cannes. Ecco la gloria che essa sognava! Ci mancava solo questo per il cuore tormentato di Eugenio. La donna di cui si era perdutamente innamorato sempre più lontana da lui…lontana come una stella…”Sei invidioso per caso..?” fece lei permalosa e nervosa come mai l’aveva vista. Si erano incontrati per caso, e stavano prendendo un caffè al Bar dell'antica Galleria. “ Ma come puoi pensare una cosa simile? Tu sai che ti voglio bene…” si difese, già ferito dal tono della giovane, Eugenio. “ Senti, taglia…Mi avevi promesso, in una delle tue tante lettere, che non avremo mai più parlato di questo! Ed ora mi vieni a fare il geloso!” “ Hai ragione, come sempre, scusami! Ma sono preoccupato!” “Preoccupato? Preoccupato di che?” “ Non mi convince quel copione…” “ Ma chi ti credi di essere? Forse mio padre? Neanche mia madre mi fa simili paranoie! Solo che loro mi conoscono meglio di te, e sanno che me la so cavare benissimo da sola. Non si immischiano in queste cose! So fare bene le mie scelte io…” “ Vuoi dire che non mi devo intromettere…” “ Appunto! Non ne hai alcun diritto! Non lo avresti neanche se tu fossi il mio ragazzo! Nessuno può possedere la mia anima! Lo sai, ne abbiamo parlato! Sono libera io, indipendente, come la mia gatta…” “ Va bene! Sai che ti ho sempre rispettato per come sei. Ma non posso darti nemmeno un consiglio..?” La tazzina del caffè, nel frattempo, faceva pericolosamente la spola tra le labbra di Dulcinea ed il piattino, senza che lei si decidesse a sorbire la bevanda.“ Eugenio, ascolta, non ho nessuna voglia di litigare con te. Forse sarebbe meglio lasciarci col sapore buono del caffè…ma via, se proprio lo desideri…facciamoci male, spara! Che c’è di sbagliato nel fatto che io possa fare un film…?” “Niente! Ma come ti dicevo: il copione non mi convince!” “ Perché lo hai letto forse..?” “ Uno dei nostri colleghi di palcoscenico me lo ha mostrato…” “Ebbene..?” “Vedo che tu sarai la protagonista di una cosa davvero assurda…” “ Ed allora? A me piace!” “Contenta tu! Ma da un regista che ha firmato opere come “Strafatti” “Strafighe”, “Cazzeggiare” o “Colon Spastico”, non mi aspetto molto!” “Sei cattivo! Ed invece ti dico che il copione è interessante! Solo che tu non riesci a comprenderlo...” “ Non vorrai mica girare quelle scene di intimità e di nudo..?” “ Ah, è questo che ti brucia! Sei semplicemente geloso! Uffa, mi hai stancato. Neanche Valter mi fa tutte queste paranoie! E lui è il mio ragazzo!” “ Lui non ti ama, io si e non voglio, non voglio che sprechi il tuo talento con della gente depravata...” “Ma che dici! Sei pazzo! E' tutta gente di cinema. Poi lui, Gastone Padoin, è un vero artista...” “ Con la scusa dell'arte , vuole fare di te l'incarnazione della sua anima oscena...” “ Stai esagerando! Sei solo un moralista, un ipocrita! Finiamola qua! Farò quel film! Hai capito? E tu non potrai farci niente!” “ Brava! E i tuoi sani principi, i tuoi valori morali, tutto ciò che ti hanno insegnato i tuoi genitori, non hanno più importanza per te? Sono solo parole? Bla...bla...bla! La tua ambizione, la tua voglia di apparire ha la meglio anche su di essi? Se tu farai quel film, non capisci che tradirai la tua anima sognatrice?” “ E' a causa di questa anima sognatrice che io faccio il film, Eugenio” “No, così sarebbe troppo alto il prezzo che devi pagare per il tuo sogno. Proprio tu, che mi hai sempre ricordato di “fare la cosa giusta” non quella che può renderci dannatamente felici...?” “ E allora” “Allora tu devi fare la cosa giusta. Pazienza farai ancora teatro, il cinema può aspettare...Telefona ai tuoi genitori e vedrai che ti daranno il mio stesso consiglio!” Ella bevve allora tutto d'un fiato il suo caffè ormai freddo si alzò dal tavolo. Era solo una farfalla il suo grande amore, una farfalla bellissima capace di mimetizzarsi ogni volta con il luogo dove andava a posarsi dimenticando le mete precedenti del suo viaggio. Dulcinea salutò Eugenio, così che il mondo che lei aveva illuminato coi suoi occhi scintillanti, tornava ad oscurarsi, mentre crollavano anche le ultime illusioni su di lei. “Non sono così nobile come credi tu! Sono una donna, non un angelo del paradiso! Tu non sei innamorato di me, ma dell'idea che ti sei fatto di me! Se mi conoscessi davvero, non ti meraviglieresti così...Ed ora, scusami, devo andare! Ho le prove del film...” “Traviata, questo è il titolo del tuo film? Cos'è la storia moderna di Violetta?” “ Oh, come sei scontato! Quello, il Gastone, è un genio. Ha scritto lui il soggetto. E' la storia di una ragazza che si prostituisce...” Eugenio così, per l'ennesima volta, la vide andar via da lui, salvo a sorprendersi quando Dulcinea si fermò all'uscita del locale per chiamarlo a sé. “Cosa c'è...?” “Volevo dirti che anch'io ho qualche dubbio su alcune scene che mi riguardano...Vediamo, ne parlerò col regista! Ma se tutto va bene, ti manderò l'invito per la prima!” “Scusami, ma non verrò. Non voglio vederti! Ci starei male credimi! Non ti riconoscerei.” “ Io per te sono solo Dulcinea...” “ Tu sei il mio sogno, sei la donna che ho sognato da tutta una vita! Sei la cosa più bella che io abbia mai visto!” “Eugenio!” “Scusami...ciao allora! Abbi cura di te!

 
 
 

L'AMORE NON UCCIDE

Post n°1041 pubblicato il 26 Novembre 2013 da guarneri.cirami
 

 

Lo avevano trovato i Carabinieri, all’alba, vicino al mare, lontano dal luogo della strage, in evidente stato confusionale. Ivan Ruggeri era all’interno della sua macchina, con le sicure chiuse ed un tubo di gomma a collegare lo scarico all’abitacolo della vettura ancora spenta. Dopo avere, infatti, realizzato l’efferatezza del suo gesto, egli aveva deciso di suicidarsiCosì dichiarò al maresciallo, che lo aveva arrestato dopo una notte di ricerche ed avvistamenti. Il ragazzo si era arreso subito senza opporre resistenza, alzando le mani di fronte alle mitragliette spianate dei militari. Si era arreso, alzando le mani ancora insanguinate della giovane vita di Fede, la sua ex ragazza. Le stesse mani con le quali - più tardi, tra due ali di folla inferocita – avrebbe coperto il suo viso di “angelo del male”. “Ricordo tanto sangue…tanto sangue mio Dio!” continuava a ripetere, come inebetito, strascicando parole che faticavano a venire su, perché il suo petto era come schiacciato dall’orribile ricordo del suo delitto. “ Ricordo tanto sangue…ma no ero io! Credetemi, non ero io!” continuava a ripetere, stretto tra i due carabinieri che lo portavano in caserma; e poi in carcere, dinanzi al giudice per le indagini preliminari. “Io amavo Federica! L’amavo più della mia stessa vita!” Tuttavia quelle mani – che osservava incredulo - e lo stesso maglione che portava in dosso – e a cui lei si era aggrappata, prima di cadere agonizzante - continuavano ad accusarlo, prima ancora della gente lì fuori. Quel maglione ora lordo di sangue, gliela aveva regalato Fede, il natale precedente…Sembrava passato un secolo!E le sue mani – le sue mani assassine – erano le stesse con le quali aveva amato Fede. Dio cosa gli era successo! “Ma perché, Ivan,” gli chiese il padre, in uno dei loro primi colloqui avvenuti in carcere, “perché? Tu amavi Federica…” “ Si, papà, l’amavo, l’amavo troppo…” “Allora, Ivan, non capisco…” “ Federica era cambiata…voleva lasciarmi! Diceva di farmene una ragione! Farmene una ragione! Non ci riuscivo! Stavamo insieme da così tanto tempo! Eravamo dei ragazzini… Lei era tutto per me! Era la mia vita! Non ci poteva essere nessun’altra! Ma per Fede non era più così…” La gelosia di Ivan faceva paura a Federica; così come il suo amore, diventato qualcosa di “patologico e ossessivo”…Così diverso dal sogno che un tempo li aveva uniti. “Credo si fosse innamorata di un altro!” mormorò Ivan con la testa tra quelle mani… “Capisci..? di un altro!Papà non potevo permettere che lei fosse di un altro; non potevo perderla…” “Ma non capisci, figlio mio che, uccidendola, l’hai perduta lo stesso, l’hai perduta per sempre? Poteva esserci ancora una speranza di riconciliazione per voi…” “No, papà, non c’era nessuna speranza. Federica era decisa a lasciarmi….l’ho capito quel pomeriggio…” Si riferiva al tragico giorno del delitto, che adesso scorreva nella sua mente come un film dell’orrore. Era il 22 dicembre, e la ragazza aveva telefonato ad Ivan perché passasse da casa sua. Egli, anche illuso da quella chiamata, era più che mai deciso a riconquistarla. Così, grande era stata la sua delusione quando capì il vero motivo per cui Federica lo aveva chiamato. Voleva solo restituirgli l’anello che egli le aveva regalato anni prima, chiedendogli di ridarle le sue foto e le sue lettere. Ivan, allora, esasperato per la decisione della ragazza – raccontava uno dei tanti cronisti che in quei giorni si erano occupati della tragedia – aveva approfittato dell’occasione, che lei stessa gli aveva dato, per ucciderla, insieme ai suoi nonni, che invano avevano tentato di proteggerla, con un piano premeditato e feroce. “Non è forse vero Ivan? In ogni caso è ciò che pensa la polizia! E quello che pensano i magistrati. Perché ti saresti portato il coltello con te, allora…?” “ Come ve lo devo dire, papà, - replicò il ragazzo tentando invano di vincere il tremore della voce e delle sue mani da pianista, “che quel giorno non pensavo affatto di poter uccidere Fede…Anzi! I due coltelli li avevo già in macchina. Li dovevo, infatti, portare ad un collezionista, per venderli e riuscire ad acquistare un brillante a Fede! Così da farle una sorpresa…per riconquistarla! “Ma lei aveva già deciso! Nel mio cuore lei ancora non era morta, nel suo io si….” Federica, infatti, era stata irremovibile! Dopo aver detto che non lo amava più, e che la lasciasse in pace, gli aveva gettato l’anello su un tavolino, perché lui se lo riprendesse. Fu in quell’istante che scese la notte nell’animo turbato di Ivan Ma non era la notte che portava buoni consigli; era una notte cattiva, una mala notte, di quelli che scatenano i mostri che per anni vivono addormentati dentro di noi. Ivan, così, invitò la ragazza a seguirlo fuori, fino alla sua macchina, con la scusa di restituirle il pacco di foto e lettere che aveva messo nel cofano. Fu doloroso per lui constatare come ella non si commuovesse neanche alla vista delle immagini felici della loro storia. E fu proprio, in quel preciso istante, che il magnifico coltello persiano brillò sinistramente nello scuro del bagagliaio e della mente di Ivan. Di fronte alla freddezza di Federica, egli non riuscì più a controllarsi. Prese il coltello, e lo puntò verso la sua ex ragazza, minacciandola che, se non fosse tornata con lui, avrebbe compiuto una pazzia. Ella, allora, buttò via il pacchetto delle foto, e tentò di sfuggire al suo aggressore, di rifugiarsi in casa. Tuttavia, con un piede accostato ad uno degli stipiti, Ivan le impedì di chiudere la porta, che poi spinse violentemente, facendo cadere a terra la ragazza. Federica, terrorizzata, si rialzò, tentando di raggiungere i nonni, che conversavano nel giardinetto interno della casa; ma Ivan svelto le precluse ogni via di fuga e, con la lunga lama del suo khanjar da collezione, la colpì violentemente alla gola e al cuore. Finché non la vide accasciarsi mollemente a terra, fissandolo incredula, mentre dei rivoli di sangue le uscivano tra le belle labbra color corallo che tante volte aveva baciato. “Ma io l’amavo papà, te lo giuro! E l’amerò per sempre…” disse Ivan, mentre la sua voce sembrava anch’essa morire col giorno, che si spegneva tra le sbarre della sua eterna prigione. Il padre era andato via sgomento. Avrebbe voluto gridare al figlio “Ma che amore era il tuo…? Cosa c’entra l’amore con la carneficina che hai fatto? L’amore è rispetto, è tenerezza, è cercare di far felice chi è oggetto del nostro sentimento; è, semmai, morire per chi si ama….non certo uccidere!” E mentre i giornali vendevano alla curiosità della gente il mostro, in cui si era trasformato il figlio, e i genitori di Federica, straziati, reclamavano giustizia per la figlia uccisa, il padre di Ivan si chiedeva in cosa avessero sbagliato lui e la moglie.…Se per loro e per il figlio – condannato all’ergastolo – ci potesse essere una speranza di resurrezione da quel regno di “morti viventi” in cui sarebbero stati esiliati per sempre. Ma il corpo di sua moglie - da giorni chiusa in casa per la vergogna -, che penzolava da una trave del soppalco di legno nel garage, gli fece capire che anche per loro era impossibile uscire indenni da quella tragedia…


Alberto Guarneri Cirami

 
 
 

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