L'isola di Avalon

GLI STORNELLI ROMANI - Romanità


Superato il Medio Evo, nel quale la letteratura era infarcita di rime riportanti il sentimento di ostilità contro la donna ritenuta fonte di malignità e di frode, l’area degli acquedotti declina, come in realtà tutta la città, fino al ‘500.Dalle catacombe di S. Sebastiano alle pendici dei Colli Albani, l’aspetto della Campagna romana è funerea, e solo il sole d’Ottobre, che s’appoggia sulla Tomba di Cecilia Metella, guardando come un innamorato la monumentale architettura degli Acquedotti, rende il paesaggio meno triste.La fama dei luoghi del "malincontro" si estende ben oltre le Alpi. Le gesta dei "furbi" e "malandrini" varcano i confini nazionali, la letteratura europea si riempie di "pajate e coltelli", delle descrizioni delle belle funzioni religiose lungo la via delle Sette Chiese e delle "sassaiole" alla cava dei selci.Ma oltralpe, superando i limiti della lingua popolare, giungono anche gli stornelli, gli sfottò, i proverbi romani. I riti, le tradizioni, i costumi, immortalati dalla memoria, vengono tramandati come favole, leggende. Le storie d’osteria vengono illustrate come le tante piastrelle dei cantori ambulanti pronte ad essere coagulate nella storia e tradizione popolare di ogni luogo. Così non c’è ostacolo di frontiera fra il canto siciliano, la sceneggiata napoletana, lo sfottò romano, la burla toscana e quella d’oltralpe. Un filo comune lega queste tradizioni fatte di parole estrapolate da consigli medici, culinari, d’amicizia e d’amore, mentre dal Medioevo ci giunge il senso dell’odio verso la donna. Questo, limitato nel periodo greco-romano, con l’avvento della cultura oscurantista arriva ai massimi livelli sia in termini filosofici che fisici e triviali. Nella tradizione orale popolare entrano anche i detti nati dai testi sacri, come S. Matteo che asserisce che "In bocca è peccato quello che esce , no quello che c’entra" quasi in risposta all’abbandono della correttezza della tradizione popolare romana dove "né a tavola, né a letto nun se porta rispetto". Il vino che corre a fiumi nelle tavole romane, rallegrando papi e santi, ladri e prostitute è l’elemento essenziale, il perno della civiltà romana, visto che già nell’antica Roma circolava una lista comprendente 192 qualità di vino. Sapendo che il vino "fa’ cantà", è impossibile non affrontare anche il tema delle canzoni nate fra una gita fuori porta ed una occasione come tante per passare una serata in una bettola.Gli stornelli romaneschi sono sempre stati considerati come un aspetto semplicemente "pittoresco" e "popolare" della vita quotidiana romana senza un vero valore artistico e culturale, perché troppo legati alla passione e alla violenza di una vita dominata dalla miseria e dall’ignoranza. Eppure gli stornelli romani, sempre nati dall’improvvisazione e dall’estro del momento, traevano la loro forza proprio dal fatto di essere così autentici e genuini, sia quando venivano cantati dalle popolane come "sfottò" da balcone a balcone, sia quando assumevano gli accenti drammatici dei carcerati di Regina Coeli. Lo stornello romano di solito breve e immediato e rivolto ad un esiguo pubblico, viene poi ripreso e tramandato dai cantori di strada, dai carrettieri o venditori, da autentici aedi ciechi come Omero, i cosiddetti Pasquali. La loro genuinità rimase intatta almeno fino alla fine dell’ 800, finché cioè vari studiosi non cominciarono a ricercarli e a trascriverli, tradendone in qualche modo, per motivi commerciali, lo spirito originale. Nelle osterie di Statuario, Quadraro-Porta Furba e quelle nelle campagne di Capannelle e Vermicino, viene riportata in musica la quotidianità attraverso lo stornello, correzione e riadattamento delle scenate fatte alle belle contadine, alle monticiane, alle trasteverine.