alessandro canu

FRAGILE: Cronache di un mentitore (Seconda parte)


 Cronache di un MentitoreSeconda parte     ¡Ah, l’arte, gli artisti! Frequentavo le gallerie, i musei, partecipavo alle discussioni, ma non esprimevo mai la mia opinione, non ci capivo niente. Scambiavano il mio silenzio per profonditá di analisi, concretezza di pensiero, dolorosa dissonanza dal coro. Le mie bevute e le mie troppe sigarette per un pugno in faccia al perbenismo moralista e bacchettone. Mi ero giá fatto un nome senza proferire una sola parola nella critica d’arte, ostinatamente tacendo. Era una forma di menzogna anche quel mio silenzio programmato e ambiguo che avevo imparato a gestire con una leggera alzata di sopracciglio o con una lieve smorfia di disgusto. Bastava esibire un silenzio accompagnato da un’alzata di spalle davanti ad un’opera esposta, un tirar dritto all’entrata di una galleria dove un’apprezzato artista esponeva i suoi lavori o un gesto di sufficienza per una installazione in un chiostro quattrocentesco, per suggerire dubbi ai miei colleghi di studio e renderli più prudenti sui giudizi. ¿Potevo dire apertamente e con sincerità ai miei giovani amici entusiasti che io ero li con loro per errore, per un malinteso, per dare una copertura istituzionale alla mia incapacitá? Imparare il linguaggio dell'arte, fatto di vuoti poetico-lessicali, di sterzate immaginifiche e di "quasi-come",   non fu certo difficile, era sufficiente sapersela cavare a scrivere roba del genere:                                “l’artista invita a considerare in senso visuale le molteplici dimensioni dell’oblio, (spaziale, temporale, valoriale), prodottosi incessantemente nella generazione di strutture materiali, così come nell’accumulo di sovrastrutture simboliche, ideali e teoriche, proprie del mondo contemporaneo. L’operazione si tiene dunque scientemente al di fuori di un approfondimento psicoanalitico sulle modalità della rimozione (individuale e collettiva) quasi ai margini della denuncia sociale, assumendo i toni della riflessione intima sui destini incongruenti e aleatori dei corpi e dei costrutti. Accanto, o meglio insieme e attraverso… ”.                            Bello, non è vero? solo che non significa niente. La sostanza delle cose non cambia e la sostanza era che la scultura rinascimentale e barocca non la digerivo, l’architettura gotica mi sembrava di una futilità mortale, quelle chiese tutte uguali, le infinite volte a crociera, gli amboni, i presbiteri e i transetti. La pittura dell’ottocento mi annientava con tutti  quegli eroi, le spade, i mossi drappeggi. Le avanguardie novecentesche mi sembravano esercizi velleitari di artisti altrettanto indolenti come me, solo più furbi. L’arte moderna e contemporanea mi causava un mal di pancia che iniziai a calmare col bere. La casa in mezzo al fiume di Lloyd-Wright? una bottiglia di vino bianco, leggermente fruttato. Le serigrafie a colori sgargianti di Andy Warhol? un martini dry con oliva. Le scolature e il dripping di Jackson Pollock? birra a fiumi. I buchi di Fontana? un porto rosso, corposo e asciutto. Questo i primi tempi, dopo imparai ad essere meno esigente e a mandare giù tutto quello che capitava.  Divenni un mancatore di parola, un mentitore di professione, un’acrobata della mistificazione. Tendevo i miei fili tra due verità possibili e li attraversavo leggero, un po’ ubriaco forse, ma libero di qualsiasi emozione.  Delle inaugurazioni, dei vernissage, mi ricordo solo il tavolo dei liquori. Delle interminabili discussioni sull’arte  povera di Beuys e Kounellis conservo vaghi ricordi di contraddizioni palesi, si finiva sempre col citare le scatolette merde-d'artist di Piero Manzoni e a quel punto voleva dire che la serata era davvero conclusa. Dopo Manzoni c’erano solo i, buonanotte, ci si vede domani a lezione. E tutto finiva li, più disperati di prima, perché nessuno di noi sembrava capirci niente, ma nessuno aveva mai il coraggio di dirlo per primo. Dopo la laurea, me ne andai via per un paio d’anni, a zonzo per l’Argentina, il Venezuela, imparai quel poco di spagnolo e di inglese che conozco e mi costruii la fama di viaggiatore e pseudo-artista che da li in avanti mi fregò per sempre. Non produssi mai niente, non scrissi mai neppure un rigo su un qualche sconosciuto artista locale, che ne so, un tardo-impressionista di paese. Negli anni che viaggiai nei paesi latino-americani, non entrai mai in una chiesetta, mai in un museo, mi disintossicai dall’arte e spacciai eroina e cocaina coi cartelli di Medellin. Era la mia vita, era quello che volevo veramente fare, bere, fumare, annientarmi al sole del sudamerica, dove i suoi abitanti sono pigri quasi quanto me, ero felice e sazio. Non durò molto naturalmente. La polizia porteña mi fermò con il doppio fondo di una ford, con cinque pani di cocaina grezza, mentre cercavo di imbarcarmi dal porto di Buenos Aires verso l’Uruguay, dove l’avrebbero raffinata. L’avrei dovuta riportare indietro in cambio di un bel gruzzolo di pesos, invece trovai la polizia che mi tenne in carcere per qualche tempo. L’ambasciata e i miei genitori mi riportarono a casa, si inventarono che la ford non era mia, che non ero cosciente di quello che conteneva, che ero un alcolista, malato, e che avevo bisogno di cure urgenti nel mio paese. Così mi ritrovai con questa etichetta di  alcolista incollata addosso. Grazie alle due lingue che conoscevo trovai un posto di lavoro nella reception di un grande albergo, ma dopo neanche un mese di lavoro il direttore mi propose uno scambio che non potevo assolutamente rifiutare, o un impiego nello stesso albergo, con lo stesso vestito e la stessa cravatta, ma in un orario leggermente diverso, in differita per così dire, oppure aria, via rapidamente. Lo facevano per il mio povero padre, mi disse, solo per il rispetto e la stima nei suoi confronti, che non meritava un figlio come me. Accettai di indossare la stessa camicia dalla mezzanotte alle sette del mattino, come portiere di notte e lì scoprii i vantaggi della mia nuova solitudine.    Non lo dico per nessun’altra ragione al mondo, non mi vanto di questo, è il caso, il dna, i geni che non mi sono certamente scelto io. Lo dico con la più sincera indifferenza e il distacco che mi da l’essere cosciente della mia nullità, so vestire, so come si indossa un abito elegante. So come entrare dentro una giacca classica in grisaglia e uscirne indenne, dandomi un leggero colpetto coi guanti sui pantaloni. Conosco i completi in flanella grigia, l’occhio di pernice o principe di galles a cui abbinare il velluto a coste. So scegliere la praticità del taglio sportivo in tweed, piuttosto che il cammello o il cachemire. Ho usato queste mie conoscenze per cercare altri lavori che mi permettessero di stare almeno con un piede attaccato al mondo. Non sono mai stato quel tipo d'uomo per il quale le femmine si strappano il reggiseno di dosso, ma Conobbi una donna una volta. Una di quelle con un giro di perle attaccato al collo e un marito lontano anni luce dalla sua dolorosa sensibilità. Si appassionò al mio maglioncino in mohair e quando le parlai della cappella di Mark Rothko si prostrò letteralmente ai piedi, e badate che non c’è nessun doppio senso. Mi disse che il nero di Rothko le comunicava un gran senso di spiritualità, ma che allo stesso tempo le faceva venire una gran voglia di vodka ben ghiacciata. Le proposi di berne una insieme e finimmo in tre dentro un letto. La cosa andò avanti finchè durò il bisogno di dividerci la vergogna, poi sparì anche lei, come una nave che esca da un porto e si diriga in mare aperto. Ogni volta che  bevo una vodka penso all’eleganza con la quale sapeva indossare il suo giro di perle e alle sue braccia con le vene azzurre e i bracciali d’oro ai polsi. Alcuni di quei suoi bracciali trasmutarono rapidamente dallo stato solido a quello di liquido, finchè il marito se ne accorse, le mise un altro bracciale meno prezioso al collo e se la portò via, in una clinica a dire a tutti, ciao, io sono Angelica e sono un’alcolista. Ciao Angelica…   Ma adesso eccomi qua, stavo per diventare un vero professore di Storia dell’arte e me la stavo facendo addosso dalla paura. Mentire, dovevo solo ricordarmi di mentire, sempre. Inventare storie, fantasiose e plausibili, come faceva Mastro Battista, un uomo che al mio paese era noto a tutti per le bugie più improbabili e strampalate che solo lui sapeva inventare. Tutti lo conoscevano, faceva il rappresentante di tovaglie e biancheria intima, esibiva un grosso anello d'oro con iniziali non sue al mignolo della mano sinistra e tutti erano stati vittime delle sue storie surreali. Non sapeva trattenersi dal rinvigorire la altrimenti piatta e banale cronaca  della sua giornata, con un episodio completamente inventato, che però le dava senso, arricchendola di sostanza. Mastro Battista sapeva prendere il resoconto di un semplice episodio della più noiosa quotidianità e convertirlo in un racconto fantastico. Animali enormi e terrificanti si materializzavano nel buio, che era però stranamente luminoso, come nessuno mai l'aveva potuto vedere, in una notte che rientrava da solo dal lavoro in compagnia di un negro dell'africa. Un viaggio per nave era tempestato da onde alte come un palazzo di tre piani con le finestre, i vetri, le tegole e tutto quanto; un incidente con la macchina aveva coinvolto tre autoarticolati che, improvvisamente, passavano tagliandogli la strada, come una sarta con la sua grossa forbice; una donna era uscita di senno per aver visto il figlio morto mentre questo le stava ancora in grembo, al calduccio dentro la sua pancia; un uomo era entrato per scommessa di notte nel cimitero e il suo cappotto era rimasto impigliato al chiodo di una tomba e lui aveva creduto che fosse il morto a trattenerlo, avvinghiandolo con le sue mani cadaveriche. Lo avevano ritrovato al mattino, disteso sulla tomba, con la bocca aperta per il terrore e i capelli diventati di colpo tutti bianchi. Le donne e i bambini ammutolivano ai suoi racconti e gli uomini se lo contendevano nelle lunghe serate invernali seduti al bar. Una volta che passava di gran fretta per la piazza, alcune donne per farsi due risate innocenti gli chiesero di inventare una bugia delle sue, la prima che gli venisse in testa, ma mastro Battista, non accennando a fermarsi, anzi accelerando il passo, si scusò con le donne dicendo che aveva fretta di arrivare al mercato del pesce, perchè quel giorno davano le anguille a venti lire il chilo.  La voce si sparse nel paese in un lampo e le donne corsero al mercato con le sporte, ma non trovarono altri che mastro Battista comodamente seduto a ridersela della loro credulità. Rimproverato aspramente dalle donne replicò candidamente, non mi avevate chiesto voi di dirvi una bugia? Più la menzogna è fantasiosa più è credibile, importante è avere un canovaccio su cui lavorare. Ad esempio,  la base del lavoro all’estero su cui improvvisare funzionava sempre, l’importante è fornire quei piccoli dettagli della minuzia del racconto, cose di questo genere: Sono stato all’estero alcuni anni per affari. Come? Che tipo di affari, dice? Export, mi occupavo di consulenza per il commercio di opere d’arte. Statuine azteche, maya, tutte regolarmente registrate dai governi locali. Importazione di vasi etruschi per conto di società di intermediazioni bancarie. ‘Trust companies’ che arredavano i loro uffici agli ultimi piani. Che dice? Come mai ho lasciato quel lavoro per mettermi ad insegnare? Beh, ultimamente, non si riusciva più a garantire prezzi competitivi e poi i governi locali avevano operato un giro di vite sulla possibilità di esportare e vendere oggetti d’arte, insomma, i guadagni si erano notevolmente ridotti e così,… ah! buon giorno preside, sono il professor Del Bravo, di Storia dell’Arte. Mentire, per non dire che io non so un cazzo di Storia dell’arte, mentire per non dire che io odio la Storia dell’arte, mentire sempre e sopratutto sorridere. Da questo momento in poi solo giacche di tweed.   Me ne stavo in piedi davanti allo specchio del comò in camera, nient’altro addosso che la giacca del pigiama e la barba di cinque giorni, a ripetere le risposte alle domande che immaginavo mi avrebbero fatto. L’etichetta in finti caratteri cirillici della bottiglia si rifletteva all’incontrario, ma già da molto tempo non prestavo più attenzione alla qualità e alla marca dei liquori. Provai a concentrare le mie capacità sullo sforzo inutile di leggere la scritta,  awo-ro-byW, ma mi richiedeva una fatica e un dolore fisico che non ero in grado di compiere. Afferrai la bottiglia e lessi, servire ghiacciata. Mi versai un chupito e lo tenni su, all’altezza della spalla, mentre mi guardavo allo specchio, notando quanto il liquore che stavo per bere somigliasse effettivamente all’acqua. Ne aveva la sua stessa cristallina trasparenza, il suo stesso innocente nome, Vodka, ¿non vuol dire proprio così, piccola acqua? Vuotai il bicchiere e continuai a fissare l'immagine riflessa allo specchio, mi sfidava, ne ero certo. L’uomo allo specchio non abbassava lo sguardo e non si decideva ad uscire dal quadro, mi teneva testa in un modo che mi innervosì parecchio. Riempii ancora il bicchiere e lo vuotai con la stessa rapidità con cui mi avevano insegnato a farlo degli amici russi, gola aperta e giù tutto d’un fiato. Poggiai il bicchiere sul piano del comò e afferrando la bottiglia col preciso impegno di non toccarne più una goccia, riavvitai il tappo dorato di alluminio. L’uomo allo specchio continuava a fissarmi e ora mi sembrava che se la stesse ridendo di me. Alzai la bottiglia, come avevo fatto col bicchiere all’altezza della spalla, risvitai il tappo e guardando l’uomo allo specchio mi attaccai al suo collo, come a una bella signora che mi invitasse fatalmente a prenderla. Se un uomo mai osasse tradurre tutto quel che ha nel cuore, mettere giù quella che è la sua vera esperienza, quel che è veramente la verità, io credo che allora il mondo andrebbe infranto, che si sfascerebbe in frantumi, e nè dio, nè accidente, nè volontà potrebbe mai radunare i pezzi, gli atomi, gli elementi indistruttibili che componevano il mondo.    Aurora si rivelò essere una persona molto comprensiva e cordiale, mi fece scegliere fra due cattedre disponibili e si meravigliò quando le dissi che non ricordavo più di aver fatto il concorso per l’abilitazione all’insegnamento. ¡Ma lei l’ha vinto quel concorso, professore!, mi disse stupita, e poi notando il leggero tremolio alla mano mi chiese se andasse tutto bene. Le assicurai che andava tutto bene e che stavo in gran forma e dopo aver balbettato qualche complimento la ringraziai con affettazione. “Professore”, sentir ripetere quel titolo mi emozionò ancora e forse il leggero tremolio alla mano che mi era comparso all’improvviso dipendeva proprio da questo. Per il nuovo lavoro fui costretto a trasferirmi in un’altra città, trovai un appartamentino grazie ad alcuni conoscenti della segretaria che ne avevano uno disponibile da affittare. Il preside non mi fece alcuna domanda fra quelle che mi sarei aspettato, mi chiese soltanto se io fossi parente di un altro Del Bravo del quale lui era stato allievo all’università alcuni anni prima. Al mio diniego si limitò ad un sorriso di circostanza, mi fece firmare le carte di rito, mi strinse frettolosamente la mano e mi accompagnò in classe. Fece una rapida presentazione agli alunni, tossì, diede tutte le raccomandazioni, minacciò e poi, con una graziosa piroetta, se ne andò lasciandosi dietro la porta aperta. Mi appoggiai alla cattedra aggrappandomi con le mani e fissai a lungo il pavimento, il cuore era in subbuglio, cercavo di ricordare, chissà poi perché, la data del concilio di trento, ero convinto che bisognasse iniziare da li. Mi passai la lingua dentro la bocca e tra le labbra e le sentii asciutte, avevo bisogno di bere, la gola era arida e mi pizzicava come se dentro avessi della polvere di vetro. Il rumore del traffico che entrava dalla finestra aperta e che sentivo come un suono remoto filtrato dalle spesse pareti della scuola, non mi aiutava a ricordare le cause di quel concilio e neppure quelle poche nozioni che mi avrebbero permesso di improvvisare una lezione accettabile. Il concilio di trento fu convocato per… Mi bloccai li, alzai uno sguardo disperato e lo incrociai con quello degli studenti che mi osservavano imbarazzati. Mi venne in mente quel che diceva una mia vecchia professoressa ogni volta che passava dietro il mio banco. Si chinava leggermente e sussurrando a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti, mi regalava chissà perchè questa massima, la verità brucia, ma non deve far male. Lasciai allora che le parole sgorgassero da sole, libere, crudeli, patetiche, non mi opposi alla loro violenza. Io sono un bevitore d’alcol, dissi semplicemente, fissando una ragazza dai capelli lisci. Il pulviscolo dorato che le danzava attorno glieli rendeva luminosi di luce, costringendomi ad arrendermi ai suoi 17 anni. Lei si alzò e mi chiese il permesso di chiudere la porta e quando lo fece notai il suo sorriso pieno di garbo. Il mondo rimase fuori e la ragazza dai capelli luminosi lasciò fuori anche l’uomo che ero diventato. ¿A che punto siete arrivati? Chiesi, dopo una breve pausa. Al Concilio tridentino, rispose la ragazza dai capelli luminosi. Non ne so niente, replicai con una smorfia che poteva essere scambiata benissimo per un motto di spirito. Il concilio di trento fu in realtà il diciannovesimo concilio ecumenico della corrotta chiesa cattolica romana, iniziò a recitare un ragazzo secco e allampanato,  venne convocato da papa Paolo Terzo nel 1545, ma già Martin Lutero ne aveva chiesto la convocazione ben ventotto anni prima, quando nel 1517 attaccò le sue novantacinque tesi sulla porta della sua cattedrale, rifiutando l’invito del papa a ritrattare  le sue pericolose teorie  e bruciando la bolla pontificia.    Il silenzio era sceso nell’aula, i ragazzi attendevano che io continuassi la dove essi avevano interrotto, ma io aspettai in silenzio il suono della campana. Quando finalmente l’ora finì e gli studenti uscirono fuori dall’aula, fui vinto dalla bellezza di quelle semplici parole. Il Concilio di Trento, era davvero l’origine di tutto, la risposta multipla, l’abc di tutto il pensiero e l’arte a venire. Domani sarei ripartito da quel lontano 1517, quando un uomo, testardamente, da solo, aveva combattuto contro tutti i potenti corrotti della sua epoca e aveva vinto. Se a volte incontriamo pagine esplosive, pagine che feriscono e bruciano, che strappano gemiti e lacrime e bestemmie, sappiate che son parole di un uomo alle corde, un uomo a cui non resta altra difesa che le parole e le parole sono sempre più forti della menzogna. Queste parole le ha scritte Henry Miller, uno che la menzogna non sa neanche dove stia di casa.   Anche per me era era giunto il tempo di ricominciare.