Creato da alex.canu il 28/01/2012

alessandro canu

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IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 6

Post n°51 pubblicato il 03 Febbraio 2012 da alex.canu

The lemon song

 

 

  “Baby, trattami come si deve, piccola mia,

Le persone mi dicono che non sono mai contento.

Strizzami, baby, fino a far scorrere il succo sulle mie gambe.

Dal modo in cui mi spremi come un limone, 

giurerei di stare per cadere dal letto”

   Ero intento a sentire The lemon song, giro di basso a mille, la voce di Robert si lamentava disperata. Tutto l’inizio è come un blues elettrico, Jimmy Page giocherella con la sua chitarra. Pare che tutto debba svolgersi  lentamente poi, d’improvviso, il brano prende un’accelerata e si trasforma in un rock’n roll duro e tirato. Chitarra e batteria salgono di tono e di volume e impazziscono; Robert ballava sulle punte dei piedi e il diavolo iniziava davvero a far sentire il suo odore di zolfo, avrei giurato di vedere distintamente il suo ghigno sghembo in mezzo al fumo denso. Il mio giradischi andava quasi in fiamme e sembrava non reggere a tanta tensione... du, du, du dumm... 

   Alzai il volume al massimo e imitai con le dita fluttuanti nell’aria il basso di John Paul Johnes, mi misi sulle punte dei piedi quando tirai al massimo la chitarra di Jimmy, poi li battei a tempo sul pavimento. Muovevo la testa in su e giù e con le braccia libere facevo volare sul rullante le bacchette di John Bonham... Hey! Baby baby... e quasi non mi accorsi che mio fratello era li, sulla porta, che mi osservava da chissà quanto tempo. Batteva anche lui la punta del piede, ma il suo ritmo era diverso da quello dei Led, sembrava più vicino ad uno di quei brani alla Santo e Johnny o ad uno dei brani della “Raccolta n. 20” di Fausto Papetti. Aveva nove anni più di me ed era perennemente incazzato. Non gli passava mai, notte e giorno, sempre con quella faccia da gatto nero. Lo so io cos’aveva. Era arrabbiato perchè io avevo 18 anni e studiavo; era arrabbiato perchè lui a scuola non ce l’avevano mandato e adesso faceva il manovale sfigato giù al petrolchimico ed era sempre stanco morto; era arrabbiato perchè non ci sapeva fare con le ragazze e le osservava da lontano, con sguardi da lupo; era arrabbiato perchè io portavo i capelli lunghi e ricci e lui aveva un taglio come quello del nonno: riga a destra con le ondine, una cosa da far vomitare. Era arrabbiato perchè non capiva una sega della musica che ascoltavamo noi; era arrabbiato perchè aveva uno schifo di macchina giallo-senape di terza mano che gli era costata un patrimonio, e c’era pure andato a sbattere il primo giorno contro l’entrata della galleria. Non era sicuro di centrarla e infatti non l’ha centrata. Era arrabbiato perchè pensava che le ragazze avrebbero fatto a graffi per salirci e invece non faceva altro che scarrozzare a sbaffo amici con i basettoni lunghi e la riga a destra come lui; era arrabbiato perchè il babbo lo aveva picchiato fino a un paio di anni prima; era arrabbiato perchè io ero sempre allegro e pieno di vita e schizzavo come una palla dappertutto e lui era un mincimorto portasfiga. Era arrabbiato perchè io portavo un paio di Levi’s 501 Red Tab stone-washed, stretti a tubo e un paio di stivaletti rockabilly col tacco alto e lui, invece, indossava sempre pantaloni neri e un paio di polacchine marroni spellate; era arrabbiato perchè io mi sarei messo un orecchino sull’orecchio sinistro, alla faccia di tutti, e per lui invece era una roba da frosci. Era arrabbiato perchè si faceva otto seghe al giorno, (tutti i giorni), e gli stava venendo la tendinite al polso destro; era incazzato nero perso perchè io avevo tanti amici e lui se ne stava sempre solo al bar, a bere una limonata che gli durava tutto il pomeriggio. 

   Ma ora era arrabbiato perchè diceva che il volume del giradischi era troppo alto e se, per-favore-lo-potevo-abbassare-un-pochino-perchè-sennò-me-lo-faceva-spegnere-all’istante. Sottolineò quest’ultima parte unendo insieme il pollice e l’indice e portandoseli all’altezza dell’occhio destro, come Jack Nicholson in Shining.  Il suo tono di voce era alterato e l’ordine perentorio. Solitamente otteneva il risultato voluto senza bisogno che alzasse la voce, ma stavolta c’era qualcosa che non andava. Mai avevo fatto qualcosa che potesse disturbare gli altri, ma il volume del giradischi era veramente  troppo alto. Si presentò subito con aria minacciosa, intimandomi:

- Abbassa il volume, sennò te lo spengo!

- No! - dissi senza pensarci troppo. - Non lo abbasso!

Non si aspettava questa reazione, gli avevo sempre ubbidito e non era mai dovuto ricorrere alla forza, ma stavolta le cose sembravano andare diversamente.

- Spegni questa musica di merda, è solo rumore!

- Questo non è rumore, questi sono i Led Zeppelin!

- Non me ne frega niente di chi sono questi drogati. Leva il disco sennò te lo rompo!-  Non avevamo mai litigato io e lui. C’eravamo allontanati l’uno dall’altro, questo si e ultimamente ci trattavamo con reciproca diffidenza. Ma disegnava come un angelo venuto sulla terra e io lo ammiravo, come un mito irraggiungibile. Quando ero piccolo mi concedeva l’onore di giocare insieme a lui e, con qualsiasi sasso bianco che trovava per terra, riempiva la strada di animali fantastici. Uccelli, tigri, cavalli al galoppo, alberi meravigliosi che spargevano i propri rami per tutto il marciapiede, treni col loro fumo nero e indiani ululanti che scagliavano frecce. Faceva tutto questo, e tanto altro, con una facilità sorprendente, niente veniva mai cancellato, tutte le linee che tracciava erano utili e avevano un senso. Io lo guardavo ammirato e lo imitavo. Non mi prendeva mai in giro, anzi mi incoraggiava ad aiutarlo, ero orgoglioso di essere suo fratello.

   Finita la scuola media entrò in seminario per farsi prete, stava quasi per riuscirci. Conosceva il latino e il greco antico, ma evidentemente la vita monastica non faceva per lui, così, a  diciassette anni suonati, comunicò ai miei genitori che a settembre non sarebbe tornato in seminario. Mio padre lo lasciò steso a terra con la prima scarica di schiaffi, ma lui resistette e a ottobre iniziò a frequentare il liceo classico statale. Il babbo non mandò giù questa mossa, vide anni di rette versate con sudore al fottutissimo seminario andare in fumo. Denari spesi inutilmente e pretini effeminati fargli ciao con la manina, quando andava a pagare il semestre. Lo costrinse a studiare e lavorare contemporaneamente. Mio fratello si intestardì a cavarsela da solo. Pensava che ci sarebbe riuscito, era sicuro che ce l’avrebbe fatta. Per prima cosa si cercò un lavoretto a ore in un panificio. Non faceva il turno di notte, questo gli lasciava il tempo di frequentare le lezioni regolarmente al mattino e poi di studiare la sera. Con i denti riusciva anche a strappare un brandello di vita con qualche amico balordo che si era fatto. Non poteva certamente andare avanti così, mio padre lo sapeva e aspettava, quel suo figlio ribelle avrebbe ceduto, prima o poi. E mio fratello cedette, infatti. Lasciò la scuola e lavorò nel panificio a tempo pieno, ci lavorò per un periodo neccessario a trovare di meglio. Di meglio lo trovò in un cantiere, dove cercavano giovani manovali e con i primi soldi dimostrò il suo disprezzo al babbo e si comprò, di terza mano, una delle macchine più brutte al mondo, piena di rattoppi, punti di ruggine, color arancione, una cosa da cafoni. Non parlò più latino nè greco antico, non mi raccontava più le storie di Achille e di Ettore. Divenne arrogante, con accessi di ira e violenza che non gli avevo mai conosciuto. Il babbo aveva fatto bene il suo lavoro, aveva calcolato con esattezza il disorientamento nel quale avrebbe cacciato quel suo figlio testardo. Lo devitalizzò, giorno dopo giorno, come un dentista col suo ferretto zigrinato. Gli fece una canalare nell’angolo più fragile e risoluto della sua personalità e ne asportò via tutto il buono, la gioia, la curiosità, il senso innato per la bellezza che aveva ricevuto in dono. Aveva appena diciott’anni e lo trasformò in un cinquantenne grigio e rancoroso. Il colore che mio fratello scelse per il resto della sua vita fu il nero e così iniziò a vestirsi con quel non-colore: pantaloni, scarpe, maglioni, giacche, tutto rigorosamente nero. L’unica cosa che stonava era quella assurda macchina color cartone-animato, dove lui si infilava con un’autoradio scassata a sentire  Fausto Papetti e la fisarmonica tangueira di Mario Bataini. Ora so che avrebbe dovuto ascoltare un’altra musica, questa: “I see a red door and I want it painted black...” 

“ Vedo una porta rossa e la voglio dipingere di nero. Mai piu colori, voglio che diventi tutto nero. Guardo dentro di me e vedo il mio cuore nero. Forse dopo sparisco, cosi non devo guardare in faccia la realtà. Non é facile stare a testa alta quando tutto il mondo é nero”.  

Aveva solo diciott’anni allora e non poteva ancora conoscere questa canzone.   

   Colui che in quel momento mi stava ordinando di spegnere il giradischi era qusto mio fratello, arrabbiato e violento, lo capivo, ma anch’io stavo crescendo, cambiavo forma e pelle e volevo trovare i “miei” punti di riferimento. Dovevamo tutt’e due affermare qualcosa, io la mia indipendenza appena intutita, lui la sua autorità di fratello maggiore. Era destino che, prima o poi, saremmo venuti alle mani e questa pareva proprio l’occasione giusta.

- Spegnilo, stronzo - gridò - sennò te lo rompo quel cazzo di disco!

- Provaci! - gli urlai sfidandolo.

 Non solo ci provò, ma lo staccò di netto dal piatto del giradischi. Lo sollevò per aria, facendolo precipitare con violenza contro il ginocchio alzato, rompendolo in due parti precise. Mi guardò con la bocca ancora aperta, metà disco in una mano, metà disco nell’altra. Non ci volevo credere, l’aveva fatto per davvero! Guardavo il mio Led Zeppelin Due appena trasformato in due dei Led Zeppelin; non poteva essere vero! Due pezzi perfettamente inutili, neanche a reincollarli se ne sarebbe ricavato qualcosa, il mio primo disco vero, comprato di seconda mano, ma quasi nuovo. Mi vennero lacrime di rabbia e schiumai tutte le parolacce che conoscevo e carico di odio partii a testa bassa contro mio fratello, con le braccia aperte. Lui me le afferrò e le rigirò facendomi un gran male. Mi buttò giù a terra schiacciandomi il petto con il ginocchio, mentre con la mano sinistra mi afferrò alla gola, urlava. Tutta quella maledetta rabbia che aveva accumulato gli stava montando alla testa tutta insieme. Gridava che mi avrebbe spaccato quel cazzo di giradischi, che mi avrebbe spaccato anche la testa, che mi avrebbe strappato quei capelli lunghi da fròscio. Durante la lotta gridavamo forte e battevamo i piedi sul pavimento. Arrivarono mia madre e mia sorella e ci separarono. Mentre ci tiravano uno di qua e uno di la, feci in tempo ad assestargli un calcio tra i denti facendogli sanguinare un labbro. La mamma gridava, lo faceva sempre ogni volta che vedeva i suoi figli litigare tra loro. Poteva sopportare tutto, un marito violento, il fuoco in casa, la fame, ma non  vedere i suoi figli pestarsi a sangue. Mio fratello mi venne strappato di dosso e  ripresi a respirare mentre vedevo che  mia sorella lo tratteneva. Con una strattonata si liberò di lei e mi venne vicino, era gonfio d’ira e mi fissò negli occhi: - Nasconditi, perchè quando ritorno ti lascio per terra! mi sibilò. Poi si tirò dietro il filo del giradischi, strappando violentemente la presa dal muro. Uscì sbattendo la porta e sentii il suono dei suoi passi che si allontanavano e poi il motore della sua nuova cinquecento-senape di seconda mano, che partiva bruciando l’asfalto. Mia madre e mia sorella sbraitarono cose senza senso quindi uscirono, lasciandosi dietro una scia di oscure minacce. 

Rimasto solo raccolsi i due pezzi del disco e tentai di avvicinarli, combaciavano perfettamente. Avrei potuto riattaccarli o mettere un po’ di nastro adesivo su un lato, aprii la custodia e rimisi dentro i due pezzi. Pensai: “domani lo riapro e lo troverò intero, sarà stato un brutto sogno.” Riposi la copertina dentro la sua custodia e rimisi tutto sopra il giradischi. Riattaccai la presa al muro e ricollocai la spina al suo posto. Sembrava tutto normale, come se non fosse successo niente, i rumori e gli echi della zuffa si erano spenti. Il dirigibile della foto era ancora puntato verso l’alto e i quattro Led Zeppelin erano ancora lì coi loro cappotti di pelle.  Aspettai ancora, poi sentii le lacrime che scorrevano, ma non era per il disco rotto. Piangevo per mio fratello, perchè era sempre arrabbiato, perchè sapevo che mi voleva bene, perchè da piccolo mi raccontava delle storie meravigliose, piene di guerrieri con gli scudi, di navi, di ciclopi con un occhio solo e di regine, rapite da coraggiosi troiani. Piangevo per mio fratello, perchè aveva smarrito la sua canzone e non sapeva più ritrovarla.

   Baby, trattami bene, piccola mia, 

le persone mi dicono che non sono mai contento. 

Provano a tormentarmi, baby, 

ma non ti hanno mai sfigurato ai miei occhi

   Questo non mi impedì però, qualche tempo dopo, di  frugare fra i suoi vestiti finchè trovai il portafogli dentro una tasca dei pantaloni. Gli presi 3500 lire, esattamente il costo del disco che mi aveva rotto. Lo ricomprai, nuovo stavolta.  

   The lemon song, uno scandalo di canzone!

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