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alessandro canu

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IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 4 (I. parte)

Post n°54 pubblicato il 03 Febbraio 2012 da alex.canu

What is and what should never be  (I.parte)

(Quello che é e quello che non dovrebbe essere mai)

 

 

    Grazia era spiccia, non andava per il sottile, quello che voleva se lo prendeva senza chiedere il permesso a nessuno. Questo suo modo di fare a volte poteva infastidire, ma lei se la cavava sempre con una alzata di spalle, dopo aver detto la sua senza tanti complimenti. In quel periodo si sentiva continuamente nei telegiornali di persone uccise o ferite da terroristi di questa o quell’altra fazione politica. Prendevano di mira un giornalista, un giudice o un parlamentare, lo aspettavano per strada e gli facevano la pelle. Lo chiamavano per nome e quando quello si voltava gli scaricavano addosso un mucchio di proiettili, tutto qua. Uccisero così  il presidente del più importante partito di allora, non stava simpatico a nessuno e non avremmo mai voluto vederlo trasformato in un martire, ma questi ci riuscirono, furono bravissimi. Lo aspettarono e massacrarono tutti quelli della scorta, solo per prendere lui. Era Marzo del ’78, io e Grazia decidemmo di fare una cosa diversa, andarcene nell’isola di Caprera con l’autostop e i sacchi a pelo. Partimmo che era un mercoledi, arrivammo fino a Palau e da li ci imbarcammo col traghetto. Caprera è un’isola sassosa ed impervia, lungo la strada bianca che percorrevamo trovammo altri ragazzi che camminavano carichi di zaini. Ridevano e quando li raggiungemmo ci unimmo a loro.  Ci chiesero dove intendevamo dormire e si offrirono di ospitarci per la notte. Anche loro avevano i sacchi a pelo e avevano trovato una casa mezza diroccata dove dormire, ci saremmo potuti stare benissimo tutti  insieme. Venivano da Milano e avevano i capelli lunghi e un fascino per noi straordinario. Dicevano “figa e cazzo” in continuazione senza nessun problema e bestemmiavano dio ridendo, come per gioco, come se dio stesso fosse d’accordo con loro e si divertisse un casino. Quando arrivammo alla casa diroccata era quasi buio e una delle ragazze accese una radiolina. Noi eravamo fuori a raccogliere dei rami secchi per fare il fuoco quando una delle ragazze uscì fuori e gridò forte : - Ehi, le Brigate Rosse hanno rapito un politico importante. Esplodemmo in risate, grida di approvazione, commenti volgari e superficiali. Non ce ne fregava niente a nessuno. Potevano aver rapito anche il presidente della repubblica, noi stavamo a Caprera, lontani da tutto. Raccoglievamo pezzetti di legno per fare un fuoco che prometteva di riscaldare i cuori e rendere più allegre le ragazze. Ce ne andammo a dormire, io e Grazia vicini, gli altri un poco più in la. Li sentivamo parlare a bassa voce, - lo dovrebbero uccidere quel porco, - dicevano, ridendo e continuando a bestemmiare dio in quel loro modo giocoso e particolare. Che mondo meraviglioso, che ragazzi forti che avevamo trovato.

- Buona notte Grà, a che pensi? 

- A quell’uomo che hanno rapito, ho paura che succederà un casino. Buonanotte Grì.

   Lo ritrovarono due mesi dopo dentro una Renault rossa, la macchina simbolo di tutti i giovani di allora, la mitica R4. La macchina giusta dove infilare un cadavere che doveva essere santificato subito. Immaginate se l’avessero caricato dentro una Mercedes o una BMW. Invece infilarlo dentro un’utilitaria, con i sedili ribaltati come per caricare gli attrezzi di lavoro e quel plaid, così simile a quelli che avevamo usato a Caprera, ci fece effetto. Sembrava uno di noi, un impiegato sfigato, distrutto dal lavoro e che non meritava di fare quella fine. Non era più uno dei baroni dell'università, del partito del malaffare, di tanti anni di potere arrogante, di lavoro in cambio di voti. Era buttato li, piegato come un prigione dell’ultimo Michelangelo, un non-finito della nostra incerta democrazia che gridava perchè? Ci rovinarono l’ultimo mito che ancora avevamo, la R4, la macchina del cazzeggio, delle chitarre buttate dietro, delle gomme lisce, del cambio a baionetta. Ci rovinarono la sola parola di francese che sapevamo pronunciare correttamente, Renò. E poi ci rovinarono definitivamente l’unico colore che ci faceva ancora sognare un mondo migliore, il colore rosso che agitavamo contro i nostri genitori grigi, contro i professori fascisti gialli di bile, contro i preti neri d’invidia. Quando estrassero il corpo di quel povero uomo e richiusero lo sportello, dentro quel portabagagli rimasero definitivamente sepolti molti oggetti del nostro paesaggio. In quel plaid avvolsero frettolosamente quei pochi ideali che avevamo e li seppellirono insieme al suo inutile cadavere. Rimase quel volto molle, leggermente reclino, discretamente brutto e rugoso. L’avrebbero dovuto lasciare li, a decomporsi lentamente, come monito per tutti, come un monumento all’inopportunità, come un’opera concettuale, come un’installazione di arte povera. Avrebbero dovuto esporre quel plaid in un qualsiasi Guggenheim, o all’interno di una di quelle architetture assurde e invivibili, ma tanto di moda. 

   Più tardi sarebbero arrivati i Caimani veri che si sarebbero mangiati il mondo digerendolo con la Milano-da-bere e la Renault avrebbe fatto macchine comode per le famiglie francesi.

   Erano tempi duri e miseri. Durante le assemblee studentesche e alle manifestazioni politiche si sentivano solamente parole che incitavano alla violenza. Le mani alzate ad indicare la forma di una pistola. Eravamo vittime di alcuni pazzi che ci volevano trasformare tutti in assassini. Una volta un amico ci convinse ad andare ad una riunione politica, un’organizzazione di fanatici. Io e Grazia entrammo in uno stanzone denso di fumo, al centro si distingueva a malapena un tavolo attorno a cui stava un gruppo di persone che discuteva animatamente. Erano studenti universitari, con lunghe barbe e sciarpe avvolte attorno al collo, maglioni sformati coprivano il resto. Il puzzo del fumo era insopportabile e Grazia si turò istintivamente il naso mentre mi stringeva forte la mano. Ci accolsero con dei “ciao” e “benvenuti” detti con studiata indifferenza. La discussione andava avanti gagliarda, ma quando ad un certo punto uno se ne uscì dicendo: - Perchè la situazione è di sputtanamento generale cioè, il privato non esiste più perchè è politico, appartiene a tutti, nella misura in cui..., cioè... - Grazia mi toccò dolcemente la spalla e mi disse: - Andiamocene via. - Così senza salutare, nascosti

dalla cappa di fumo, uscimmo all’aria aperta e tenendoci forte, abbracciati, ce ne andammo in un forno a mangiare la pizza e a bere la spuma nera. Grazia era fatta così, poteva ascoltare per ore uno che le parlava di libri e di poesia, ma non sopportava le cazzate!

Per qualche periodo non entrammo neppure a scuola perchè qualche furbone scoprì uno scherzetto cretino, ma efficace. Sfruttando la psicosi collettiva delle bombe, abbandonate nei cestini della spazzatura agli angoli delle strade o nelle banche o più semplicemente in qualche stazione ferroviaria, la mattina, dieci minuti prima del suono della campana, una vocetta anonima telefonava rivendicando un attentato dinamitardo all’interno della scuola. Il preside era costretto in questi casi a far sgomberare l’edificio e chiamare i carabinieri per farlo perquisire da cima a fondo. Durante una assemblea di istituto piuttosto piatta, nella quale si dibatteva stancamente di cavilli ideologici, Grazia, improvvisamente, si alzò in piedi, si diresse verso il tavolo, prese in mano il megafono e, dopo una serie di insulti, gridò che “era ora di farla finita con quelle telefonate anonime annuncianti bombe a scuola”. Gridò chiaro che, “o si metteva la bomba per davvero, o ci si doveva assumere le proprie responsabilità, e che se fra di noi c’era ancora qualche coglione che volesse ricorrere allo stratagemma delle telefonate anonime per non fare lezione, lo dicesse chiaramente davanti a tutti”. Ammutolimmo e nessuno ebbe il coraggio di alzare la mano, nessuno applaudì alla proposta, ma le telefonate cessarono di colpo. Così ricominciò il tran tran quotidiano delle spiegazioni e delle interrogazioni e io tornai, come sempre, a prendere tre in matematica.

   Grazia aveva cappotti e maglioni costosi che mortificava strappando i bottoni o sfilacciandoli nei gomiti. Per un periodo mi convinse a portare i maglioni rovesciati, diceva che le piacevo così. Quando comprai il mio primo paio di scarpe da ginnastica Adidas coi soldi del buono-libri, passammo un pomeriggio intero a casa sua a scucire le tre striscie verdi con una forbicina per le unghie. Io le dissi che, veramente, quelle tre striscie erano il motivo per cui mi ero comprato quelle scarpe, ma lei non ammise repliche. Mi meravigliai quando una volta mi presentai con un coccodrillino su una polo e non disse niente, era forse un’animalista? Era  fatta così e non capii mai perchè scelse uno come me. 

   Ma ora camminavamo insieme, mano nella mano con il Secondo dei Led Zeppelin in testa. Attraversammo mezza città prima di arrivare sotto casa di mia sorella.  Saranno state le sei quando suonammo al citofono. Il tepore che ci accolse fu un benessere che si sparse lungo tutto il corpo. Grazia e mia sorella si conoscevano già, quindi non si meravigliò affatto di vederci arrivare insieme. Fra loro due si era stabilita fin da subito un’ intesa che non capivo. Parlavano ignorando la mia presenza e quando qualche volta intervenivo, continuavano come se non  mi avessero sentito affatto.

- Ehi, che fate da queste parti? Ci disse.

- Ci fai ascoltare un disco con lo stereo nuovo?

- Certo, sai dove sta, no?

- Anche tu ti interessi di Rock? Chiese a Grazia.

- No, ma per questo c’è una storia particolare. Gigio l’ha comprato da poco, di seconda mano, da uno a cui l’avevo regalato io, insomma una storia complicata... 

- Grigio, - la corressi - mi chiamo Grigio.

- Anche Gigio non ti sta male. - Disse mia sorella. Risero e ci fece entrare.

- Comunque se non puoi andiamo via subito - dissi io.

- Ma no, anzi.  

Quella sera aveva un appuntamento a cena da certi amici e lei e suo marito sarebbero rientrati molto tardi, sottolineò “molto”. Ci diede le ovvie raccomandazioni: segnare su un quadernetto eventuali telefonate in arrivo; nel frigo c’era da mangiare e qualcosa da bere; chiudere così e così quando saremmo andati via; poi, basta! Non c’era altro, - ah in televisione non c’è niente di speciale stasera, ma tanto lo spettacolo lo fate voi... avete il Secondo dei led Zeppelin... aggiunse, guardando Grazia con un sorriso idiota. Non capii subito perchè avesse aggiunto questo alle raccomandazioni, il senso mi sfuggiva, mi sembrò stupido e fuori luogo e poi, cos’era quell’aria di complicità fra di loro? 

Si infilò il cappotto, disse - ciaao - come non glielo avevo mai sentito dire e si tirò dietro la porta con una strizzatina d’occhio. Io rimasi un attimo in ascolto, poi sentii l’ascensore arrivare, le ante aprirsi con un vuoto d’aria e mia sorella uscire finalmente di scena. Grazia frugò casa, mentre io ispezionavo il soggiorno. La sentivo che apriva gli armadi e tirava giù qualche vestito di mia sorella. Poi la sentii aprire il frigorifero, prendere un barattolo e richiuderlo, si versò un un bicchiere d’aranciata. - Alloora, il diisco!? Gridò dalla cucina. La sentii che faceva scorrere l’acqua in bagno. Tirai fuori la custodia interna, estrassi il vinile tutto graffiato, lo ripulii con un panno morbido e lo misi nel piatto. Partì il primo brano, Whole lotta love e la sentii di la che canticchiava, poi mi raggiunse e la vidi che mi sorrideva in modo strano. Le parlai degli Zeppelin, della voce micidiale di Robert Plant, dei capelli lunghi, biondi come i suoi, che agitava continuamente mentre cantava.

- Pensa - le dissi - in Giappone non li hanno fatti entrare proprio per via dei capelli lunghi.

-Ah si? Fece lei. 

- Jimmy Page aveva una Gibson e dicevano che il diavolo stesso suonasse dentro la sua chitarra, ehm, da qualche parte se ascolti attentamente si deve sentire la parola diavolo, pronunciata all’incontrario. Io c’ho provato ma non l’ho mai sentita.

- Il diavolo, - disse lei - Magari lo sentiremo oggi qui, scommetti?

- Mica è vero - Dissi io, mentre lei si avvicinava. Whole lotta love stava quasi per finire e sentivo il cuore come pazzo, i tamburi della batteria di John Bonham gli facevano eco. Quando iniziò il secondo pezzo, quello della poesia, ci fu un lungo silenzio accompagnato dalle note dolci della prima parte del brano. 

- La cosa che mi piace di più di tutta What Is And What Should Never Be è che dopo tre minuti e mezzo la chitarra distorta di Jimmy viene mandata nella cassa destra, poi va nella cassa sinistra, poi ancora a destra e così via, finchè non riprende la voce potente di Robert Plant.

- Molto... potente ? - disse lei allusiva.

- E poi il brano si conclude con la chitarra che ancora rimbalza da destra a sinistra, accompagnata da una serie di vocalizzi di Plant. Bisogna avere uno stereo vero però, di quelli che funzionano sul serio, per sentire bene i passaggi, sennò si perde l’effetto.

   Le dicevo questo quando lei mi prese il viso fra le mani, le sentii calde e quel tepore si trasmise a tutto il mio corpo. Robert continuava a strillare dentro le casse cose del tipo, babe, babe e pensai che il momento era arrivato. Mi lasciai andare, distolsi l’attenzione dalla musica e mi concentrai sul calore delle sue mani. Quello che provai in quell’ istante, non mi è accaduto mai più di provarlo con la stessa intensità nel resto della mia vita. Percepii a stento la chitarra che se ne andava a zonzo da una cassa all’altra. L’effetto stereofonico doveva essere straordinario, ma non me ne accorgevo più. Ero teso e rigido. Avevo le mani incapaci di reagire, ero paralizzato e friggevo come un gamberetto nell’olio bollente. Lei si aggiustò meglio e sentii le sue mani che cercavano le mie. La punta della sua lingua toccò le mie labbra serrate e il loro contatto mi diede una scossa. Le dischiusi piano e lasciai un passaggio per farla entrare dolcemente. Era calda e umida e mi sembrò molto più bello di come l’avevo immaginato. Tutto si sciolse... babe, babe, diceva Robert Plant.

   Le mani si mossero rapide, incredibilmente sicure. Tutto il corpo era invaso da un benessere e da un formicolio nuovo che non conoscevo. Un nuovo continente che prometteva piacevoli scoperte, tutto da esplorare, si dischiuse, babe...babe... Grazia si sdraiò sul divano e mi fece cenno di seguirla. La abbracciai ancora e notai che il suo corpo coincideva esattamente con il mio. Il fluido che passava dalla sua bocca alla mia era come un balsamo che agisse in profondità. Tutto divenne facile e sorpresi la mia mano che saliva sotto il suo maglioncino a collo alto e le cercava il seno. Lo trovai e lo sentii morbido e caldo. Sotto la leggera pressione che facevo con la mano aperta i suoi capezzoli si inturgidivano ed era piacevole sentirli opporsi alla mia spinta. Dove avevo imparato ad essere così deciso? Chi mi aveva insegnato a guidare il suo piacere? Adesso dovevo imparare come moderare e tenere a freno il mio. 

- Dimmi basta - le dissi con un filo di voce strozzata dall’emozione. Al suo silenzio lasciai che la mano si muovesse agile, mentre lei inarcava la schiena e avvicinava i suoi seni alla mia bocca. Sapevo esattamente cosa fare, come toccarla, cosa dirle... babe, babe. Con l'altra mano scesi giù verso i suoi pantaloni e le slacciai il bottone di metallo dei jeans e armeggiai con la chiusura lampo, senza riuscire a spostarla di un millimetro. Lei sorrise con una smorfia e mi aiutò a tirare giù i suoi pantaloni. La mia mano si intrufolò dentro con una rapidità sorprendente e lasciai che esplorasse liberamente il suo corpo. Sentivo un piacere che saliva, che gridava forte... troppo forte. Sentivo il suo respiro e la sua mano che ora si spostava su di me e mi cercava. Slacciò la cintura e tirò la chiusura lampo con una sicurezza che mi sorprese. Mi baciava con le labbra aperte e con la bocca che ansimava. Frugò dentro di me, mentre io facevo la stessa cosa con lei. Sembravamo due pazzi che cercassero un oggetto smarrito e nessuno dei due voleva dire all'altro di averlo trovato.

    Soffocai un grido e mi alzai di scatto trattenendo con le mani il liquido denso che mi usciva. Mi vergognai di quella mia rapidità, imbarazzato da quel liquido che non sapevo come trattenere. “What Is And What Should Never Be”, era finita già da un bel pezzo, lei si staccò e sorrise mentre mi guardava dritto negli occhi:  

- E’ la prima volta, vero?

- No! - dissi con troppa fretta.

- E’ la prima volta, dì la verità.

- Ma stai scherzando, io...

- E` la prima volta!

- No, si, cioè no... Si.

- Lo sapevo, lo sapevo. Volevo essere io la prima, il tuo primo bacio, la tua prima scopata, così non mi dimenticherai mai più!

   Mi riabbracciò forte e mi baciò ancora negli occhi.

- Luce luce- diceva - , luce.

Io la strinsi in modo goffo, di nuovo, lei sorrise e mi disse:

- Piano ora, fai piano. Non abbiamo fretta.

Mi staccai appena e le presi il volto fra le mani, come lei aveva fatto prima con me. Pensai (e lo penso ancora oggi), che quello è un bellissimo gesto dell’amore. La guardai a lungo negli occhi cercando di andare più in fondo possibile dentro quel mare di grigio. Volevo essere romantico, poetico, tenero. Mi sembrava che la situazione lo richiedesse. Notai le infinite pagliuzze d’oro che li tempestavano e anch’io le dissi:

- Luce, luce, luce.

   Lei socchiuse i suoi begli occhi e mi sorrise e io ebbi la certezza di aver capito in quel preciso istante cos’è che le ragazze vogliono davvero dai ragazzi: dolcezza e follia, mescolate insieme, in un modo tale da farle impazzire.  Lo capii in un attimo e ne fui orgoglioso perchè il mio ritratto corrispondeva esattamente con quel tipo li. Ero folle e dolce allo stesso tempo, cioè lo stavo diventando. Pensavo tutto questo mentre ancora la  guardavo negli occhi.

- Beh- mi disse lei - ti sei incantato?

- Guardavo le pagliuzze d’oro in fondo ai tuoi occhi - risposi, con una nuova voce che non mi sospettavo, più morbida e paracula. 

- Bugiardo - sussurrò lei con un sorriso.

L’attirai verso di me, la baciai ancora e ancora. “The lemon song” era già iniziata. Le mani ripresero il loro dialogo e il mio corpo era finalmente più rilassato. Era così facile l’amore? Lei mi attirò e mi imprigionò legandomi con le sue gambe agili:- Sei mio, - disse - ti ho marchiato per sempre. Affondai di nuovo dentro di lei e mi persi nel suo piacere.

“Io so che tutti vedono che sto’ bene, 

ma c'è qualcuno che sa 

che sto diventando diabolico?”

   La chitarra sporca di Jimmy Page attacca il suo giro, una, due, tre volte. Poi entrano i tamburi di John Bonham, il tempo è tenuto dal basso di John Paul Johnes che lo distribuisce equamente a tutta la band e frena le esuberanze di Jimmy. Robert Plant aspetta e dondola dolcemente i capelli d’oro, lunghi fino alle spalle. Sorride mentre si aggrappa con le mani all’asta del microfono. Il bacino ondeggia dentro i pantaloni di pelle tesa e lucida, diavolo. Il ginocchio spinge verso il piede, sollevandolo e abbassandolo, come un pedale di metronomo, du-du-duumm-dumm.

I should have quit you long time ago.

“Se ti avessi lasciato molto tempo fa,

 non sarei qui, così in basso...”

   The lemon song, uno scandalo di canzone!

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