QUELLA CHE RIDEVA SEMPRE di Daniela Benitozzi E’ la storia della travagliata adolescenza dell’Autrice, che si racconta per i tre anni di liceo, per farci assaporare il suo lacerante vivere quotidiano, innamorata del suo professore di religione, che ha 34 anni, quando lei ne ha soltanto sedici.La vicenda di questo grande, infinito e sconsolato amore, è tipica delle infatuazioni degli adolescenti, che vivono sentimenti esacerbati ed ingigantiti dalla fantasia, proprio perché sono le prime schermaglie d’amore, spesso non condivise. Dalla mancanza di "corrispondenza di amorosi sensi" ed in barba a quell’"amor che a nullo amato amar perdona", nasce la sofferenza più grande che rende il cuore sanguinante e l’anima sospesa nel nulla.La storia, narrata con naturalezza e senza falsi pudori da Daniela Benitozzi, si arricchisce di elementi nuovi, che sono il valore dell’amicizia, la gioia di vivere momenti di felicità, solo per avere sfiorato la persona amata ed il grande dolore di sapere che questa non potrà mai essere sua, sia per la differenza d’età, sia perché è in procinto di sposarsi. L’opera è scritta con uno stile a mo’ di diario, ma piace perché va diritta al cuore e costituisce una accurata e minuziosa analisi di tutti gli stati d’animo, che la Scrittrice rivive nella sua memoria: credo che proprio perché questa memoria non venga distrutta dal tempo, che la Benitozzi si sia decisa a raccontarla in un libro. Leggendo la storia, ambientata in un liceo, si viene assaliti dai ricordi della giovinezza e degli anni ruggenti, che non torneranno più. E’ proprio questo uno dei pregi dell’opera: quello di riportarci indietro nel tempo, per frugare nei ricordi più cari, con una grande nostalgia nel cuore. L’arte di Daniela Benitozzi sta nell’aver saputo amalgamare fatti quotidiani, che apparirebbero frammentari, se non avessero un filo conduttore, che è il costante amore di lei per una persona divinizzata, tanto che definirei l’opera come un inno all’amore e alla sofferenza. Chiude magistralmente l’Artista con un invito alla speranza: quella speranza, ultima dea, che deve accompagnarci dalla vita alla morte, perché il dolore ci appaia più sopportabile. Merita di essere letto con la dovuta attenzione. Alfredo Giglio
RECENSIONE A CURA DI ALFREDO GIGLIO
QUELLA CHE RIDEVA SEMPRE di Daniela Benitozzi E’ la storia della travagliata adolescenza dell’Autrice, che si racconta per i tre anni di liceo, per farci assaporare il suo lacerante vivere quotidiano, innamorata del suo professore di religione, che ha 34 anni, quando lei ne ha soltanto sedici.La vicenda di questo grande, infinito e sconsolato amore, è tipica delle infatuazioni degli adolescenti, che vivono sentimenti esacerbati ed ingigantiti dalla fantasia, proprio perché sono le prime schermaglie d’amore, spesso non condivise. Dalla mancanza di "corrispondenza di amorosi sensi" ed in barba a quell’"amor che a nullo amato amar perdona", nasce la sofferenza più grande che rende il cuore sanguinante e l’anima sospesa nel nulla.La storia, narrata con naturalezza e senza falsi pudori da Daniela Benitozzi, si arricchisce di elementi nuovi, che sono il valore dell’amicizia, la gioia di vivere momenti di felicità, solo per avere sfiorato la persona amata ed il grande dolore di sapere che questa non potrà mai essere sua, sia per la differenza d’età, sia perché è in procinto di sposarsi. L’opera è scritta con uno stile a mo’ di diario, ma piace perché va diritta al cuore e costituisce una accurata e minuziosa analisi di tutti gli stati d’animo, che la Scrittrice rivive nella sua memoria: credo che proprio perché questa memoria non venga distrutta dal tempo, che la Benitozzi si sia decisa a raccontarla in un libro. Leggendo la storia, ambientata in un liceo, si viene assaliti dai ricordi della giovinezza e degli anni ruggenti, che non torneranno più. E’ proprio questo uno dei pregi dell’opera: quello di riportarci indietro nel tempo, per frugare nei ricordi più cari, con una grande nostalgia nel cuore. L’arte di Daniela Benitozzi sta nell’aver saputo amalgamare fatti quotidiani, che apparirebbero frammentari, se non avessero un filo conduttore, che è il costante amore di lei per una persona divinizzata, tanto che definirei l’opera come un inno all’amore e alla sofferenza. Chiude magistralmente l’Artista con un invito alla speranza: quella speranza, ultima dea, che deve accompagnarci dalla vita alla morte, perché il dolore ci appaia più sopportabile. Merita di essere letto con la dovuta attenzione. Alfredo Giglio