fabbrico ali usate

cicatrice


Ci sono ancora le nuvole a colorare tutto di grigio, oscurando il cielo ed il sole. Il vento fa sbattere una finestra dimenticata nella casa di fronte. Esco sul terrazzo a fumare una sigaretta cercando qualcosa che si stagli all’orizzonte, ma non c’è niente da vedere tra gli scrosci d’acqua improvvisi. I tetti sono bagnati e lucidi e la voglia di profumi e di sole si fà spazio. Vedo l’acqua che trascina a terra la polvere e sento il  rumore delle gomme delle auto che la calpestano. Una ragazza dai capelli color miele si ripara sotto il basso terrazzino della casa di fronte. Se ne sta lì, in piedi, con tra le mani un sacchetto di carta gialla e spiegazzata. Impassibile, indifferente alla pioggia, al grigio, alle auto che passano. E’ bella nella sua estraneità di fronte al momento. Mangia una carota. Non tagliata, non a fette. Lo mangia a morsi con soddisfazione e godimento, avidamente. Un po’ di succo arancione cola agli angoli della sua bocca. Lo asciuga con l’indice che poi passa sulla carta. Mangia ancora,  con tanta foga da inarcare le sopracciglia mentre morde, lasciando intravedere l’interno della bocca che si allarga e si chiude come una tagliola. Non credo mangi le carote perchè è a dieta. Lei ha semplicemente fame. Forse più che di cibo, di gesti, di passione, di felicità. Lei non addenta: sbrana. Allora mi ritrovo a pensare che a volte anche il mio desiderio per una donna assomiglia ad uno “sbranare”. Che poi è soltanto la voglia nascosta di essere sbranato.  Magari è solo voglia di una cicatrice da accarezzare ricordandola.