L'altra campana

FU OTTAVIO... - 15° seguito


     Feci da allora la conoscenza dei provocatori. E li ho sempre odiati.     “Scommetto che Fabio te le suona”.     Erano compagni più grandicelli o adulti deficienti, che ci costringevano così a batterci. Gli stessi che, vedendoci con la cartella andare a scuola, ci deridevano imitando il suono della campana che ci chiamava: “Alla ndelèn, alla ndelèn!”     Invece la lotta, che praticavamo spontaneamente, proveniva dalla cultura secolare del paese e vietava le percosse e l’uso dei pugni; non lo sgambetto; né il nocciolo (l’osso del pollice) alla schiena.      Crescevo sano e robusto, forse perché mangiavo e digerivo anche i sassi; e i capelli neri di parte materna andavano sopraffacendo quelli biondo rame della prima infanzia. A differenza di mio fratello che, moretto, da piccolo sembrava sempre mingherlino ed era più schizzinoso. A portarmi alla rissa spesso era lui, che l’attizzava e poi si rifugiava dietro la mia protezione.      Non che le liti non scoppiassero anche da sé. E allora fra noi rimanevano.       Quando abbiamo festeggiato i cinquant’anni, quelli del ’37, Lociòla, la dolce moglie di Belardino mi ha ricordato:     “Quante botte mi desti, Fabio, una volta! Lo ricordi?”     Ora sì. Nel corso di uno dei nostri litigi lei, che non era ancora diventata così dolce, mi disse:     “Ti possano ammazzare…” Una normale imprecazione. Ma aggiunse velenosamente: “…Come tuo padre”.      “Mio padre è morto in guerra; è morto anche per te”, urlai saltandole addosso. E la tempestai di tanti pugni che non l’avrebbe mai più dimenticato.     Anche Vanda cresceva bella, orgogliosa come la mamma: per tutta l’infanzia ha sempre trattato me e mio fratello da mocciosi, escludendoci inesorabilmente dai suoi giochi e dalle sue compagnie. Eppure avrei sofferto per tanti anni la lontananza della sorella maggiore, la mancanza dei suoi rimproveri, il rimpianto delle sue piccole tirannie.