L'altra campana

L'OMBRA LUCRETILE - 13


     “Vedi?” diceva nonno Angelo: “Il pastore sarebbe un dio, se non l’ammazzasse la solitudine. Tu non devi fare il pastore, esposto così alle intemperie e a parlare solamente con le bestie. E nemmeno il contadino, che sta lì a tremare per le lune e per il tempo: devi metterti a studio, come vuole tua madre, visto che sei intelligente. Altro che i cinque libri del pastore! Potrai leggere tutti i libri che esistono, per vincere la solitudine; e sapere tutto quello che c’è da sapere”.     Non ricordo quali fossero i cinque libri del pastore, di cui parlava mio nonno, a parte l’Orlando Furioso, che sarebbe diventato poi una delle mie letture preferite. Ma l’impegno a leggere tutti i libri che esistono e quel pensiero del libro che sconfiggeva la solitudine mi rimasero per sempre. E nel libro ho cercato e trovato l’amico fedele, pur constatando che non potevo leggerli tutti e che non erano sempre una guida sicura.     “Che cosa vuoi diventare? Medico, maestro… o cosa?”     “Avvocato”. Non sapevo cosa significasse la parola avvocato; ma mi piaceva.      Lembi di storia antichissima, di cui tutti eravamo ignari, erano assai più vicini al paese, relativamente nuovo. Di quello vecchio sono ben visibili i ruderi, in progressivo disfacimento, sull’altura chiamata Monte Falco. Che però con i falchi non ha nulla a che fare. Io stesso, invero, li ricordo (ormai sono scomparsi) roteare nell’aria prima di scendere in picchiata su un pulcino. Ma il nome originale dell’altura è, in dialetto, Montefàrecu, non Montefargu: il monte della fara. Acropoli di Medullia, il fareco fu fortificato prima dell’anno mille da una fara longobarda, una delle tante staccatesi dal Ducato di Spoleto, con muraglioni e tipica torre. Qualche scribacchino camerale pensò bene di aggiustarne il nome. Così altri si chiedono di dove provenga il colore fulvo della chioma di alcuni Monteflaviesi, come mio padre e altri De Mico.    Montefàrecu, pur trovandosi a poche centinaia di passi da Monteflavio, fa irrazionalmente parte del comune di Palombara Sabina, forse per ricordare la ferocia con la quale, nel secolo XV, l’esercito pontificio espugnò e distrusse quel libero comune e gli sgherri dei Savelli di Palombara, che lo guidavano, sgozzarono vecchi, donne e bambini che vi ripararono. Così che una lettera di Troiano Savelli potesse parlarne poi come di una sua “tenuta”, neanche più castello.