L'altra campana

TATA GIOVANNI - 6


     Eppure lo Stato pagava regolarmente le nostre rette. E vedevo che là dentro qualcuno mangiava. Dietro la rete del campo sportivo dalla parte delle cucine, di lato all’ingresso del cinema Alba, appartenente all’Istituto, venivano ammonticchiati i rifiuti. C’erano avanzi di cibarie che noi non avevamo mai visto sulla tavola, come ossi di bistecca o gambi d’asparagi.      Il campo sportivo era riservato agli “operai” e a “quelli dell’avviamento”, che erano completamente separati da noi; ma quando ci facevano scendere per recarci di rado nel loro cinema (a vedere stucchevoli documentari o qualche western o Stanlio e Ollio) e quotidianamente in cappella, qualcuno riusciva a svignarsela e a infilarsi nella rete, se non trovava il cancelletto aperto; per andare a frugare tra i rifiuti, dove non era difficile riempirsi lo stomaco, scorzando torsoli di cavolo o con bucce fresche d’arancio. Addentando una scorza di cocomero, io mi chiedevo chi potesse vivere in tanta abbondanza da lasciarvi due dita di rosso. Non avrei creduto che qualcos’altro mi avrebbe fatto più male dell’indigenza e forse della stessa lontananza dalle persone care.       All’ora della merenda, quando a tutti veniva distribuito il solito quarto di ciriola dopo averlo appoggiato sulla polvere di cacao, per dargli l’odore della cioccolata, la suora chiamava:       “Chi ha il pacco, in fila di qua!”       Aspettavo con ansia famelica quel momento. Alla mia vecchia conoscenza, suora Agnese, il compito di conservare e razionare le scorte di una decina di fortunati in una stanza chiusa a chiave.       “Ah, ecco Monteflavio. Tieni il ciambelletto di mamma!” Solo lei metteva le mani nella scansia. E quale non fu la mia meraviglia quando, dopo pochi giorni, mi disse che la provvista era terminata.       “Non è possibile. C’era un ciambellone intero che non ho assaggiato, una busta di ciambelline grasse e una di magre e un mucchio di pastarelle”.       “Quello che c’era l’hai mangiato”, rispose. L’avrei strozzata e lo capì. “E poi abbiamo il dovere”, aggiunse, “di pensare ai bambini meno fortunati di te, che non hanno genitori. Qua sono tanti, sai”. Mi ero quasi rabbonito, a quell’ultima spiegazione, quando Mosconi, uno dei cattivi, che girava lì attorno per rimediare qualcosa, disse forte:       “Ma quanno? S’è magnato tutto lei, coll’antre scuffie. Fanno sempre così”. E mentre la suora lo picchiava con la cintola di cuoio che le pendeva lunga sul fianco:      “J’o devi di’, a tu’ madre”.