L'altra campana

TATA GIOVANNI - 10


     Tata Giovanni significava per me fare in tre anni e in regime di reclusione i due anni residui di scuola elementare che potevo fare al paese in libertà. E senza che mi si aprisse la prospettiva degli studi superiori.            “Beato te, che ci hai tu’ madre!” mi dicevano certi monelli. Alcuni di loro erano trovatelli. E mi accorsi presto che anche molti che avevano la madre mi invidiavano di avere avuto un babbo morto in guerra: la maggior parte non sapeva chi fosse il padre; e si insultavano con parolacce da far venire i brividi.      “Perché nun dici a tu’ madre de portatte via?”     Magari! Acquistai l’assoluta convinzione (e ce l’ho ancora) che la peggiore delle mamme, anche una prostituta, sia migliore della più buona delle suore e che comunque internare un bambino in una comunità (lo urlai poi a mia sorella) sia un delitto; che anche in un ambiente ottimale, nessuno meriti l’inferno della segregazione in istituto, o in quelle che, soppressi gli orfanotrofi come una palese vergogna, si sarebbero chiamate “casa famiglia”; che chiunque dica il contrario sia un vigliacco e che sia l’interesse degli istituti religiosi a rendere in Italia tanto difficili le adozioni, essendo intuibile anche da uno sprovveduto che per un bambino è meglio essere adottato da  omosessuali o barboni che vivere senza famiglia.     Non avevo la forza di gridare la mia disperazione. E avevo lasciato la famiglia in condizioni così misere che una bocca in più, pensavo, sarebbe stata per la mamma un peso insostenibile. Ma perché la retta non poteva essere data a mia madre, anziché alle scuffie? Forse per evitare che ci campasse decentemente tutta la famiglia?        Credo che lei stessa, che stupida non era, cominciasse a chiedersi se mi avesse messo proprio “a studio”. Ma pensavo che non avesse scelta, ormai. E alle sue ripetute domande rispondevo sempre rassicurandola che ci stavo volentieri, che mangiavo e che tutti mi volevano bene. Mi facevano indossare la divisa, per uscire con lei. Al giardinetto di Testaccio, presso la nostra futura scuola d’avviamento, c’era un fotografo che ci riprendeva davanti alla scenografia di una laguna. Ero veramente carino, vestito così bene. Ed ero felice, con lei. Poi, ripartita la mamma, tornavo a piangere di nascosto.     Ma anche adesso, nel raccontarlo, mi pongo la stessa domanda: chi può farci caso alle lacrime di un bambino?