L'altra campana

TATA GIOVANNI - 11


     Mosconi non l’aveva, una madre alla quale chiedere o dare aiuto. Una volta che una suora lo picchiò di nuovo, per punirlo della sua insolenza, le afferrò il velo e tirò giù con tutta la forza, togliendole la cuffia e gridando:     “Scuffia! Scuffia! Te la levo io, la scuffia. Stronza!”     La suora emise un urlo e si accasciò semisvenuta. Mentre il “cattivo” si ritraeva nell’altro angolo e scoppiava in un pianto dirotto. Come un bambino.     Io strinsi i denti e restai. Speravo inoltre che in tre anni (significano l’eternità, per un bambino) qualcosa potesse cambiare. Qualcosa cambiava in me. Imparai tutte le parolacce del vocabolario romanesco. Per forza: nei primi tempi, vedendo come i bambini provenienti dai paesi erano presi in giro e chiamati burini, me ne stavo per lo più taciturno (anche per questo ero considerato un buono); e quando dovevo proprio parlare, cercavo di imitare i romani. Mi riconobbi una rara versatilità linguistica. Ma in un ambiente come quello diventai litigioso e violento, quantunque, rispetto al peggio, continuassi ad essere classificato tra i buoni. Accettavo subito la rissa, schierandomi però con il più debole. “Non è giusto” era la mia parola d’ordine: ero stato già socializzato dal paese. E conobbi cose che non avrei mai saputo: la mafia tra bambini, la sopraffazione, il ricatto, la frustrazione.      Conobbi anche l’amicizia, il sogno, la speranza. Ma rischiai una deformazione del mio stesso carattere, cadendo in una rete di bande e di rappresaglie fanciullesche (i fanciulli possono essere più crudeli degli adulti), nella quale i più “vecchi” e spregiudicati schiacciavano ogni possibile contendente trattandolo da nemico. Una volta uno mi saltò addosso a sorpresa dopo avermi sgambettato e mi tempestò di pugni. Per scommessa, mi dissero poi.     Credo di essere stato salvato dalla mia voce.     Una delle suore che a turno ci sorvegliavano nel terrazzone, una suora nuova, un giorno si mise a cantare, con alcuni bambini chiamati attorno a sé. Di solito me ne stavo lontano dalle scuffie, pieno di rancore contro tutte. Sentendo alcuni canti che avevo imparato da Ulda, mi avvicinai e, invitato anch’io a partecipare, presi a cantare. Mi gradirono al punto che rimasi a cantare da solo; gli altri a sentirmi.