L'altra campana

LA VOCAZIONE - 9


     La camerata dei piccoli era allora costituita dalla sola I Classe di scuola media, la più numerosa e la più soggetta alle defezioni. La II e la III classe costituivano la camerata dei grandi. I pochi che arrivavano al ginnasio, secondo il numero, potevano fare un terzo gruppo a parte.     Non credo che i carcerati subiscano un regime di coazione pari a quello.     Due schiocchi di mani del prefetto precedevano il primo crudele suono della campanella alle sei di mattina. Al secondo schiocco dovevamo stare tutti seduti sul letto a recitare le prime preghiere del mattino. Poi i minuti contati per lavarci, vestirci e metterci in fila. Sempre in silenzio e sempre in fila per due avvenivano tutti gli spostamenti; dal dormitorio in chiesa, per la messa, e dalla chiesa al refettorio per la colazione; seguivano le pulizie, nostra incombenza; quindi dal cortile, dove ci adunavamo man mano che finivamo le pulizie, all’aula scolastica; l’aula era inoltre il nostro studio e la succursale per la ricreazione di una camerata (l’altra sotto il portico) quando pioveva. Seguivano il pranzo, la ricreazione, la visita in chiesa, lo studio, la funzione serale, la cena, la seconda ricreazione, l’ultima visita in chiesa. E alle ventuno eravamo a letto.         Mi ci volle qualche anno per capire perché non fosse ammessa alcuna comunicazione tra le camerate. Così, non ebbi mai occasione di parlare con Emilio, il monteflaviese superstite. Lo vedevo soltanto quando le due camerate si spostavano, contemporaneamente ma per file separate.     Il regime carcerario non apparve per fortuna così rigido prima dell’inizio delle lezioni, grazie alle più numerose passeggiate all’aria aperta che il disimpegno scolastico ci consentiva. La passeggiata, bel tempo permettendo, era programmata altrimenti solo per il giovedì e per le domeniche libere da impegni religiosi pomeridiani. Ed era bello camminare tra ameni casali vigilati dai tradizionali cipressi.     Di fronte al portale esterno della chiesa (per le funzioni era aperta ai fedeli) e all’entrata del Castello c’era una dépendance, dove viveva una vedova con tre figlie ormai da marito e un figlio poco più grande di noi. La signora Valentina era la nostra cuoca e guardarobiera; ma aveva poco da cucinare e troppo da rammendare. Lavava i nostri panni e, con l’aiuto del marchio ricamato e di un paio di grandi incaricati del servizio li sistemava in enormi scansie, dove, ognuno dal suo scomparto, li andavamo a prelevare per cambiarci.