L'altra campana

LA VOCAZIONE - 14


     Molti lasciarono. Alcuni al primo brutale impatto; altri nel corso dell’anno; i più tra i piccoli, qualcuno tra i grandi. Quelli che se ne andavano di loro volontà venivano subito isolati, perché non contagiassero i compagni, nel tempo occorrente per la corrispondenza con i genitori. E ad essi si aggiungevano alcuni che venivano rifiutati, perché visibilmente malaticci o ritardati; finché la prima classe, che rappresentava quasi la metà dell’istituto, diventava anch’essa una classe normale.     “Non avevano la vocazione”, era la spiegazione univoca.      Così dopo un paio di mesi dal nostro arrivo, alla presenza del Padre Rettore, mi fecero finalmente parlare con Emilio. Se ne stava andando anche lui. L’avevo visto un po’ isolato e a volte canzonato dai compagni. Lo chiamavano Polli, perché in una delle recite che si facevano in certe ricorrenze e che qui chiamavano accademie, aveva recitato la parte, non difficile per lui, di un contadino che passava vendendo polli. Nessuno si salvava da un soprannome, per lo più dispregiativo; Terzo l’avevano chiamato Nonno; e posso capire il perché; il mio devo averlo rimosso dalla memoria.      Gli chiesi costernato perché andasse via.     “Non sono portato allo studio”, rispose con una frase non sua.     “Per questo ti cacciano?”     “No”, intervenne il Padre Rettore: “Non è necessario che diventiate tutti Padri: chi non riesce negli studi non viene cacciato via, ma può restare nella vita religiosa come fratello…” (non si diceva più frate). “E’ lui che se ne va, di sua volontà”.      Con gli occhi umidi gli chiesi ancora il perché. Disse:     “Mi dispiace lasciarti solo, Fabio; ma questa vita non fa per me. Si vede che non ho la vocazione”. Altra frase non sua. E aggiunse: “Cosa devo dire a tua madre?”     “Pensi anche tu di non avere la vocazione?”  mi precedette severo il Padre Rettore, dissimulando la sua preoccupazione. “Basta che tu lo dica”. Sapeva bene anche lui che avevo i miei dubbi. E non avrei mai cessato di averli. Ma ero fermo nella decisione pregiudiziale che avevo preso: per risolverli dovevo prima studiare. A scuola andavo bene e il latino mi piaceva: vi ritrovavo inflessioni del dialetto sabino. Risposi:     “Di’ alla mamma che io mi ci trovo bene e che non si preoccupi”. E vidi il Padre Rettore rialzare il capo, come in un respiro di sollievo.