L'altra campana

IL NOVIZIO - 7


     Nel corso del controllo delle pulizie, nel mio turno di vice decano, riuscivo raramente a gettare un’occhiata su L’eco di Bergamo, lasciato in giro dai Padri; come dire un’occhiata sul mondo dalla toppa della sagrestia. Ma a vincere la noia mi aiutò maggiormente una grammatichetta tascabile di spagnolo che mi ero fatta regalare a Pescia, forse dal Sergente: unica attività utile, che potevo espletare durante il raccoglimento in cella.     Del mio carattere montanaro mi era rimasta la schiettezza. In tutta sincerità esponevo perplessità e riserve al Padre Maestro, il quale mi ammoniva di non farne parola con i confratelli, per non turbarne “la serena coscienza”; ma apprezzava la mia sincerità come una rara qualità, tanto da assegnarmi il compito di ebdomadario (cioè di colui che nella settimana intonava l’Ufficio) e, per più turni consecutivi, l’incarico di vice decano. Infine mi ritenne idoneo ai voti temporanei, nonostante i dubbi che gli manifestavo. Non tutti, per la verità; mi sembrava pericoloso, oltre che inutile, parlare con lui dei miei primi dubbi di fede.     Tutti i venerdì, se ben ricordo, chiusi nelle nostre celle, dovevamo fustigarci con la cintola, mentre egli passava per il corridoio tintinnando il campanello e recitando un lunghissimo responsorio.      Ed era l’unica volta che scoprivamo le gambe: per metterci a letto ci avevano insegnato a tirare giù i calzoni dalla fessura praticata a un lato delle tasche della veste; quindi ci infilavamo con la veste sotto le coperte; seduti sul letto coperti, ce la sfilavamo e, recitando l’apposita preghiera, la stendevamo infine sulla coltre perché ci proteggesse dagli stimoli del male. Perfino la doccia si faceva in mutande; infilandovi le mani per il tempo strettamente necessario, dovevamo evitare di guardarvi dentro.     Una volta che da vice decano ero salito a controllare se i fratelli di turno avessero pulito a dovere il corridoio delle celle, sentii come una voce di gemito provenire dal fondo. Avvicinandomi senza essere sentito (avevo le scarpe nuove con la pianta di para, che mia madre mi aveva mandato nell’ultimo pacco), sentivo colpi e lamenti, come di qualcuno che veniva picchiato. Stavo per intervenire, quando mi resi conto: il nostro Padre Maestro stava flagellando crudamente la sua carne. Andai via furtivo, come se avessi peccato, per averlo scoperto.     Primo fra tutti a praticare l’ideale di mortificazione che ci inculcava, il Padre Arrigoni aveva su di noi un ascendente incontrastato.