L'altra campana

VENERABILIS BARBA - 12


 Il mio primo esclusivo obiettivo di ricerca aveva riguardato il fondamento della religione cristiana, la rivelazione; ossia la possibilità che Dio fosse intervenuto nella storia umana, a insegnare la verità assoluta, a consacrare santi e profeti, a omologare le leggi, ad addrizzare le persone, ad eleggere fedeli, a pretendere atti di culto e, al fondo di tutto, a consacrare l’autorità almeno spirituale dei suoi ministri e dei suoi sedicenti testimoni. Non avevo messo in discussione quel teismo naturalista che, accettato perfino dagli illuministi, non aveva nulla a che fare né con la religione in generale, né con il cristianesimo in particolare. Ora come Lucifero mi ribellavo all’idea che esistesse la Bontà infinita in un dio che aveva condannato i diavoli ad essere il male e aveva creato per loro e per i peccatori le pene eterne dell’inferno. Fuori del mito, mettevo in dubbio, come Giobbe, che ci fosse un dio buono e onnipotente, cristiano o no, a governare un mondo pieno di angustie e di sopraffazioni, dove i buoni vengono angariati e uccisi mentre ai prepotenti e agl’imbroglioni sembrano riservati i godimenti.  Anche la mia la chiamavano superbia. E superbia non era. Forse presunzione. Ma questo non posso dirlo io, perché il nostro grado di presunzione possono misurarlo solo gli altri. Certo meno presuntuoso di chi si fa interprete del pensiero di Dio, ero e resto convinto che la  mia presunzione non fosse altro che il coraggio della ragione. Proprio perché caratterizzato dal mio progressivo rifiuto, l’ultimo anno a Camino mi sembrò eterno.  Salutati i vecchi che ci lasciavano per gli studi di teologia o per tornare alla spicciolata nel “mondo”, io continuavo a respirare il fascino malinconico del vecchio castello e a salutare la statuina bianca della Madonna che spiccava sulla facciata della chiesa di Camino, quando scendevamo in coppie casuali, con la rituale benedizione all’uscita e al rientro, a confessarci dal parroco.  Camino non raggiungeva, credo, i mille abitanti. Ma era un paesino evoluto e pulito, dove le donne, benché lavorassero per le colline del Monferrato e nelle risaie della sottostante pianura, apparivano, nelle rare processioni dei giorni di festa, truccate come cittadine. Dico apparivano a chi osava guardarle di sottecchi, essendo severamente proibito rivolgere uno sguardo o una parola ad alcun monferrino. Così il dialetto piemontese, come quello lombardo, non ha potuto contagiarmi; in piemontese so strapazzare solo Maria Giuanna, imparata da Figone.