L'altra campana

L'AVVOCATO - 3


 Chissà, caro Vittorio, quale meccanismo psicologico l’aveva reso misogino fin da bambino. Per vari anni, finché non ci perdemmo di vista, restai in corrispondenza con l’amico pessimista. Anch’egli si era iscritto a giurisprudenza e cercava lavoro, attraverso i concorsi… Gli scrissi che non appena avesse incontrato l’anima gemella sarebbero cambiati anche il suo umore e la sua nera visione della vita. Ma finora non era andata per il verso giusto: Vittorio stentava a riambientarsi nel civile e più spesso incivile consorzio. Se da bambino l’avevo conosciuto come un po’ “diverso”, l’esperienza religiosa aveva soltanto omologato la sua diversità. A Somasca, dove anche sua madre era venuta per assistere alla professione religiosa, disse apertamente che la odiava, lasciando attonita mia madre, che tentò di dissuaderlo, e dando poi a me lo spunto per il mio primo racconto, Ragazzo dov’è la tua casa.  Trani 20/III/60 Caro Fabio, sono d’accordo con te: ti sei fatto attendere un bel po’, ma non per questo la tua lettera mi è giunta meno gradita. In essa ho ritrovato uno che parla il mio stesso linguaggio: qui quasi nessuno lo parla; si cerca sempre di ingannare se stessi… Ti lascio la tua speranza; ma probabilmente quella che si chiamerà la tua, la nostra, anima gemella amerà non te, ma l’uomo che avrà creduto di trovare in te, in me. E ciò fa male, tormenta fino alla follia… A volte penso che, se esiste, chi ci ha fatto dev’essere stato terribilmente infelice… Non riesco a capire come tu possa parlare di un possibile vero amore… Rinunciare alla vita, accettare definitivamente il destino, ricacciare dentro di me tutte le aspirazioni, rinunciare per sempre al diritto di agire, di vivere! Capisci, Fabio, ciò che significano queste parole: non sapere più dove andare. Questa è la mia impossibile situazione. Quante parole! Sta allegro, la finisco. Frequento giornalmente e incoscientemente l’Università… Scrivimi. Vittorio. Lo rividi nell’aprile del 1961 nei pressi del Palazzo degli Esami. Io non avevo mai fatto concorsi: mi sapevano di cannibalismo.  Lo costrinsi a una lunga passeggiata su per il Gianicolo, fino a Porta San Pancrazio, perché tornasse a “camminare in salita” (“la prossima volta portiamo almeno lo zaino”, mi scrisse poi). Parlammo di tutto, con il caro compagno delle mie sofferenze. E lui che avrebbe fatto qualunque cosa per aiutarmi mi parve, benché potesse frequentare l’università e il Palazzo degli Esami, che d’aiuto avesse più bisogno di me.