L'altra campana

ARRIVANO I NOSTRI - 7


 Tenevo le lezioni, trattando la materia sotto il profilo storico, nell’aula magna della facoltà di lettere e filosofia, dato il gran numero di frequentanti.  Ero molto atteso da loro. E questo mi bastava per non sentire la fatica aggiuntiva di dover raggiungere una sede che richiedeva lo spostamento da un mare all’altro. Molti studenti (ma erano già laureati che, dalle varie facoltà, acquisivano l’abilitazione all’insegnamento) si dicevano meravigliati, qualcuno si mostrò scandalizzato dalla mia libertà di giudizio e di parola.  Il 17 febbraio del 2000 improvvisai nell’aula universitaria la commemorazione dei quattrocento anni dalla condanna al rogo di Giordano Bruno, il frate nolano che mi precedette nel rifiutare l’orrore oppressivo della morale ascetica; l’estroso filosofo che prima di me riscoprì l’immanentismo pagano e la gioia di sentirsi un piccolissimo ma indispensabile contributo alla vita universale; l’uomo che con la superbia di Lucifero accettò una morte atroce per pagare, ardendo vivo, al mostro incombente dall’alto, la libertà di pensare. Ma forse fu il doppio lavoro ad essermi fatale. 5 novembre del 2000. Del tutto inaspettata, sentii suonare una campanella che immaginavo più lontana. Alzatomi durante la notte nella nostra casa di Monteflavio, dove avevamo trascorso il ponte lungo dei Santi e dei Morti, dovetti svegliare Antonietta per essere portato subito in ospedale. Era l’infarto. Nell’ospedaletto di Palombara Sabina l’inesperta dottoressa di turno al pronto soccorso mi diagnosticò un’ulcera. Solo per le insistenze di Antonietta fui trasferito al mattino nel reparto giusto. Sentivo che era una cosa seria. Ma che non era ancora la volta buona. Mi dissero che avevo avuto in passato un primo infarto cieco: non me n’ero accorto. Approfittai del fatto di essere sull’orlo dell’aldilà per rimanere quasi muto tra i miei cari, accorsi tutti con grande apprensione al mio capezzale. Antonietta non mi lasciò per un solo minuto. Troppo debole per parlare con lei, parlavo con me stesso… “Che cazzo combini?” diceva il mio cervello al mio cuore: “Non lo sai che hai due figlie ancora disoccupate?” “E tu”, rispondeva, “continua a fare la rivoluzione da solo! Pensi che io sia un motore indistruttibile? O ti sei scordato quanto mi hai sbatacchiato fin dall’infanzia?” “Sei tu a scordarti che non mi sono mai mancati compagni”. “Quali? Quelli che ti faranno direttore generale regionale, povero grullo?”