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I guai indiani della Coca cola company


Marica Di Pierri Associazione A Sud [pubblicato su Carta.org il 9 Aprile 2008] Il colosso mondiale delle bevande gassate non sta vivendo tempi facili in India. L’opposizione delle comunità allo sfruttamento massiccio delle fonti di acqua dolce per l’imbottigliamento della Coca-cola e delle altre bibite della multinazionale di Atlanta, ha infatti dato il via a una campagna che in pochi anni si è diffusa a macchia d’olio in tutto il paese, e che è riuscita a ottenere alcune vittorie importanti. Uno degli stabilimenti principali della Coca-cola, a Plachimada nello stato meridionale del Kerala è rimasto chiuso dal 2004 a causa delle proteste delle comunità. Partita dalla dura opposizione delle donne delle comunità colpite dalla mancanza d’acqua, molte delle quali adivasi [indigene, ndr], il movimento indiano contro la Coca-cola è divenuto una presenza radicata che coinvolge centinaia di migliaia di persone. In India, il 70 per cento degli abitanti basa la propria sussistenza sull’agricoltura e quindi sull’acqua. Le comunità che vivono accanto agli stabilimenti di imbottigliamento della multinazionale hanno subito in pochi decenni la graduale contaminazione del territorio e una progressiva mancanza d’acqua causata dalle ingenti quantità di acqua dolce necessarie alla lavorazione delle bevande. L’incidenza di questi fattori ha colpito principalmente le comunità più vulnerabili: popoli originari, donne, classi sociali disagiate, piccoli agricoltori, mezzadri senza terra propria, che hanno subito la perdita dei mezzi di sussistenza tradizionali delle comunità e della sicurezza alimentare per migliaia di persone.Le forme di impoverimento delle riserve di acqua locale hanno messo in serio pericolo intere comunità: gli stabilimenti del Kerala sono stati responsabili della drastica diminuzione quantitativa e qualitativa dell’acqua disponibile con un prelievo di 1,5 milioni di litri di acqua al giorno. Oltre al problema della voracità degli stabilimenti, la Coca-cola è accusata di aver distribuito residui tossici come fertilizzanti ai contadini residenti accanto agli stabilimenti. La questione è divenuta un caso di salute pubblica: le conseguenze di lungo termine della esposizione ai residui tossici non sono ancora calcolabili, tuttavia Coca-cola è sicuramente colpevole di aver contaminato i terreni e le acque sotterranee e superficiali, oltre che di aver messo in vendita bevande con elevati gradi di tossicità.In seguito ad uno studio condotto dal Centre for science and environment [Cse, Centro per la scienza e l’ambiente] infatti, che rivelò la presenza nella Coca-cola di residui di pericolosi pesticidi in concentrazioni fino a 30 volte superiori dei limiti consentiti, il 7 dicembre 2004 la suprema corte dell’India ha imposto alle multinazionali l’obbligo di apporre su ogni confezione una etichetta recante l’attestazione di pericolo per i consumatori. La multinazionale si è difesa dicendo che le concentrazioni di sostanze pericolose sono secondo la legge, ma la legge indiana, notevolmente più permissiva delle corrispondenti leggi europee o statunitensi. Una difesa che non ha convinto né le autorità, né i cittadini, che anzi si sono sentiti trattati come «consumatori di serie B». L’impresa è divenuta un esempio di malagestione delle risorse, e ha dimostrato di operare in totale violazione dei criteri di responsabilità sociale ed ambientale. La messa in rete dei conflitti territoriali di cui è costellata l’India per la difesa delle risorse idriche e rurali ha dato slancio alle rivendicazioni delle comunità, e ha creato legami di solidarietà e mutuo soccorso.Negli ultimi tempi, dopo la vittoria ottenuta nel Kerala, sono sorte altre due forti vertenze territoriali a Kala Dera e Mehdiganj: due comunità in mobilitazione per difendere i propri diritti e ottenere le chiusura di altri due stabilimenti che come gli altri rubano l’acqua causando povertà, contaminazioni e malattie.