L'amore secondo noi

INTERVISTA di PASQUALE QUARANTA su BABILONIA


UN FIORE CONTRO LE DISCRIMINAZIONI Delia Vaccarello racconta il suo amore per le storie senza voce di Pasquale Quaranta Edito originariamente in "Babilonia", n. 10, novembre 2005, pp. 57-58 Delia Vaccarello è nata a Palermo e vive tra Roma e le colline umbre. Svolge docenza di "media e orientamento sessuale" presso la scuola di giornalismo di Bologna. È autrice della pagina "Uno, due, tre... liberi tutti" pubblicata a martedì alterni su "l'Unità", una rubrica che ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui il premio giornalistico Europeo “Sì alle diversità. No alle discriminazioni”. Ha scritto Gli Svergognati (La Tartaruga, 2002) e ha curato anche le tre edizioni dell’antologia di racconti Principesse azzurre (2003, 2004, 2005) sempre per la Piccola Biblioteca Oscar Mondadori. Raccogliere testimonianze significa anche dar voce a chi non ne ha. Raccontare delle storie vuol dire anche esprimere se stessi. Il tuo lavoro di giornalista, il mestiere di scrivere, ti ha aiutata ad essere più libera e ad amare un po' di più? Fin dagli inizi della mia professione ho scoperto che nel corso di un'intervista c'è un momento speciale che chiamo il "momento magico": è come se le anime di chi chiede e chi risponde divenissero due fiumi le cui acque, per un attimo, convergono poco prima di unirsi al mare. Il giornalismo mi ha insegnato che l'umanità delle persone è un elemento imprevedibile nella sua fertilità. Credo di aver intrapreso questo lavoro perché mi muove un profondo sentimento di amore per ciò che vive, ma la collettività non è facile da raggiungere e il giornalismo è una piccola imbarcazione capace di traghettare le nostre vite. La scrittura in sé è un momento di grande riflessione. Vorrei essere abile come una brava artigiana del legno che pulisce i suoi strumenti, che rifinisce l'opera con cura e pazienza. Vorrei che ogni scritto avesse il nitore del più piccolo mobile appena restaurato. Quando scriviamo levighiamo parole e frasi, togliendo la patina di ovvietà che un termine abusato porta con sé, per restituirlo alla sua forza espressiva. C'è un modo per farlo, gli "scrittori artigiani" lo conoscono. Le donne lesbiche mi sembrano ancora "belle addormentate nel bosco" in attesa di una "principessa azzurra" che le svegli con un bacio. Ciascuno di noi ha bisogno di essere risvegliato dal torpore che il potere, oggi massimamente, infligge alla nostra emotività e affettività. Noi paghiamo il prezzo delle eredità di ruolo che la cultura tramanda a maschi e femmine. Avere la forza di trovare sé stessi non è compito facile. Ed è però il primo passo verso la libertà. La libertà è innanzitutto interiore, e poi diventa con naturalezza modo di essere nella collettività. La libertà è anche possibilità di assecondare i propri autentici slanci. Il "primo" coming out è, dunque, capacità di ascoltare e far emergere dentro di noi le nostre autentiche vocazioni, senza reprimerle o inibirle. Noi lamentiamo il degrado della vita sociale a opera di una destra che promuove prodotti e non percorsi di vita. Il degrado ci scoraggia, e finiamo al massimo con l'escogitare forme di resistenza e non di invenzione. Inventare la propria strada mentre la si percorre è il vero "coming out". Bisogna lottare contro chi e cosa ci opprime, anche dentro di noi, e trovare nuove strade, senza aspettare che l'accoglienza arrivi alla prima uscita. La forza dell'amore, inteso come modo di stare al mondo, vive della convinzione che le esperienze, anche le più private, divengano, pur in modo indiretto, forza di tutti. Non credo si possa essere felici a lungo restando solo in due. Anche il modo intimo di vivere l'amore ha le sue forze, che però fioriscono nella pienezza quando non si smarrisce lo sguardo che occorre rivolgere alla comunità. Dunque "intimità" non equivale a invisibilità, e visibilità non equivale a libertà. La vera sfida non consiste nell'obbedire a etichette che ci diano la sicurezza di aver percorso la nostra strada. La sfida con sé stessi consiste nel trovare la propria strada e non insabbiarsi, ma fare "coming out" nel senso di non rintanarsi in nicchie del vivere che diventano vicoli ciechi. Libertà per me è amare sé stessi e gli altri secondo il proprio unico modo di essere. E una cosa è certa: l'amore si vede. In "L'amore secondo noi" (Piccola Biblioteca Oscar Mondadori), racconti storie di ragazze e ragazzi alla ricerca dell'identità. C’è un modo per capire se siamo davvero innamorati? I ragazzi fanno moltissime domande sull'amore. Tra le domande compare proprio questa: "Come facciamo a capire se siamo davvero innamorati?". Io rispondo narrando le storie dei ragazzi in prima persona, e al termine di ogni storia iniziando con loro un viaggio nei luoghi emotivi che il racconto ha schiuso dentro di noi. Il lessico è onirico, allusivo, fumettistico anche, metaforico. Al termine del libro ritorniamo lì, dove le domande non finiscono mai. Al termine del libro torniamo ad innamorarci ancora, davvero. Non lo capiamo "soltanto". Lo sentiamo, ed è un sentimento "intelligente". Abbiamo viaggiato attraverso l'abbandono, la sorpresa, l'imprevisto, l'estasi, il contatto con le nostre solitudini: sono i luoghi che l'innamoramento "vero" ci fa attraversare. Al termine del libro, poiché qualcosa abbiamo "inteso", voliamo nella libertà di una risata. Sei credente? Io ho perso il corpo di molte care presenze, ma non ho perso il loro spirito. Non conosco l'oblio degli affetti. Mi sembra che dentro di noi viva una sorta di diapason in grado di vibrare laddove la forza di coloro che ci sono, e che ci sono stati, ritorna in noi, bussa alle tante nostre porte interiori. Cerca la nostra voce per avere una propria voce, ancora. Questa forza può ritornare anche nella carezza dei rami scossi dal vento. Io sono una persona ostinata, che non lascia perdere un contatto emotivo quasi a ogni costo. Mi chiedo il perché di questa ostinazione e mi rispondo richiamandomi alla forza del mio sentire. C'è un sentire che mi guida. Io credo in questo sentire, nella sua capacità di oltrepassare i limiti dello spazio e del tempo. Gesù resuscitava? Ecco, io credo che l'Amore possa resuscitare, cioè suscitare ancora, e ancora, moti dell'animo altrimenti mortificati, dignità negate. Spontaneamente, faccio questa operazione con coloro il cui corpo non cammina più su questa terra. Di recente hanno ammazzato il cane che adoravo, Felis. Lo hanno avvelenato, per un uso barbaro che c'è qui in Umbria e che prende di mira gli innocenti. Era lui, di già, una sorta di "prosecuzione" di un cuccioletto che ho seppellito un giorno, avendolo trovato sul ciglio della strada ammazzato e abbandonato. Anche allora una voce prepotente dentro di me disse: "seppelliscilo". La voce guidò le mie mani, mi fece prendere la vanga, mi fece smuovere la terra. Dopo qualche giorno la mia cagna in calore si accoppiò con un cane proprio sopra quel tumulo che custodiva le spoglie del cuccioletto morto. Dopo un paio di mesi, nacquero i cuccioli, e uno di loro somigliava straordinariamente al piccolo sepolto. Lo chiamai Felice. Mi seguì fin da subito come un'ombra. Io ero e sono il suo grandissimo amore. Adesso lo hanno avvelenato. Mi sono sentita spaccare il cuore. L'ho portato all'obitorio. È il secondo grande amore che muore all'improvviso e che abbraccio all'obitorio: prima, all'età di 23 anni, la mia compagna. Ora, Felice, che aveva pressappoco la sua età, se misurata in tempi canini, 4 anni circa. Ho scorso tutte le foto di Felice, detto Felis come diminutivo di Felicitas, finché ho sgranato gli occhi: ora, solo ora, mi è apparsa la grande somiglianza con la compagna che ho perso. E non è un'impressione, sono somiglianti: biondi, belli, con uno sguardo castano profondo che innamora. Sono somiglianti: nell'avermi amato tantissimo. Io credo in questo. L'amore che riceviamo e diamo è un abbraccio che non ha fine, non conosce sbarramenti, recinti, catene, limiti. Entra dentro di noi, e da noi in altri, e a un certo punto, come una grande tenda tiepida che ha i colori del crepuscolo e dell'alba, ci abbraccia e ci rigenera. Per toccare questo amore ho attraversato il dolore della perdita fino all'ultima goccia. Quando ero giovane ci sono voluti dieci anni della mia vita. Adesso, grazie alla forza che mi arriva da coloro con cui sono in contatto, mi sono immersa subito. Ho pianto molto, ancora non tutto. Ho scritto un racconto che si intitola "Anima bionda". È per me l'anima mundi. È un mondo da riscrivere o soltanto da correggere, il nostro? Riscrivere il mondo sarebbe considerarsi onnipotenti. Spesso ci si brucia nel provare a riscrivere, anche se l'obiettivo può essere stimolante e può indurre a vedere le cose con chiarezza. Forse dovremmo provare a correggere il mondo dopo aver pensato di riscriverlo, e aver valutato che per riscriverlo non abbiamo il tempo. Continuo a seguire la tua metafora: quando ho iniziato a scrivere articoli per il giornale, e poi racconti, quando ho iniziato, ancora, a svolgere una funzione di dirigente dentro il giornale, correggendo gli scritti altrui, o di curatrice delle antologie di amore e vita di donne tra donne, ho imparato davvero il mestiere di chi corregge. Prima ho accolto le correzioni fatte a me, poi le ho apportate ai testi altrui e ai miei. A volte correggere è arte di fioretto, si tratta di interventi leggeri, che lasciano l'autenticità dell'impianto dell'opera. Ma venendo alla sostanza della domanda, dinanzi all'orrore che vedo crescere intorno a noi, la metafora si perde. Non basterebbero oggi ritocchi leggeri, in un mondo che insegue le cose e non il senso del vivere, che ci interroga su quesiti sofisticatissimi e che ha perso il contatto con ciò che di semplice e forte ci fa vivi: le relazioni con gli esseri viventi, la qualità dell'ambiente, l'educazione alla convivenza, la possibilità data a ciascuno di esprimersi, l'arte, la pace vera, solo per fare qualche citazione. Vorrei che guardassimo il mondo con lo sguardo di chi è innamorato, che trepida e non vuole che nulla mai e poi mai possa fare del male alla persona amata. Vorrei che lo guardassimo con lo sguardo dell'amore, che conosce i tempi lunghi dell'attesa, e costruisce una vita a due.